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//////Interventi dei relatori


19/11/2003
Conferenza "La società della manipolazione" di Giulietto Chiesa a "Media e Identità" presso la Biblioteca per l'Infanzia "De Amicis" di Genova

Enrico Testino:
Come già detto l'iniziativa Media e Identità ha la finalità sia di raccogliere e divulgare diversi punti di vista su questo tema che di contribuire a realizzare uno spazio di confronto e pensiero sull'influenza dei media.
L'influenza dei media nel formare un nuovo uomo può, e deve, essere analizzata da diversi aspetti: culturale, sociale, politico, economico, didattico, psicologico, psichico. Il relatore di oggi può ovviamente offrirci il suo contributo, oltre che su altri aspetti, in particolare su quelli economico e politico.
Giulietto Chiesa è conosciuto da tutti per la sua indipendenza di pensiero e critica. E' sempre stato un uomo che ha saputo osservare e raccontare il mondo al di qua e al di là del "muro". Oggi continua a farlo raccontando la situazione attuale dai diversi punti di osservazione, caratteristica questa che lo rende un testimone e un "attore culturale" prezioso. La sua esperienza e i suoi viaggi internazionali, il conoscere bene alcune situazioni russe e d'oriente, conoscere altrettanto bene "l'occidente" e suo spirito critico lo mettono in grado di offrirci spunti e pensieri importanti.

Giulietto Chiesa:
Il tema è molto vasto e questa sera non credo che potremmo neanche lontanamente affrontarlo approfonditamente. Cercherò di porre comunque l'attenzione alcune di queste questioni.
Una questione è stata introdotta dalle parole appena dette perché, in effetti, la mia esperienza internazionale mi ha consentito di osservare avvenimenti e cose che se fossi stato qui non avrei visto. Innanzitutto vedere come il sistema mediatico può produrre un cambiamento politico.
Lo si può osservare anche qui, ma da noi, nelle società industriali evolute occidentali, dove esiste una forte società civile più o meno organizzata (in Italia sicuramente molto forte, ma anche in Germania, in Francia, in misura molto minore negli Stati Uniti) ci sono comunque fattori di compensazione che contrastano, modificano i vettori principali del comportamento sociale.
Dove invece non esistono questi fattori si vede con drammatica evidenza il peso dei media. Io ho potuto constatare direttamente questo in Russia e l'ho visto a distanza di tempo in Albania. Vorrei fare questi due esempi affinchè possiate capire il punto in cui ci troviamo perché, a mio avviso se non si capisce dove ci troviamo sarà difficile uscire bene da questa storia.
Comincio con l'esempio russo perché lì ho visto nello spazio di pochissimi mesi, massimo un anno, come il controllo mediatico totale di una popolazione può completamente cambiare le percezione dell'intera popolazione stessa, grandi, piccoli, bambini, tutti in massa.
La realtà russa era tale che quando è crollato il Partito Comunista Russo e la società si è trovata senza ossatura, come una società senza scheletro che si è afflosciata su se stessa, non c'era una società civile capace di realizzare una contro-azione organizzatrice delle menti, e i media hanno assunto una straordinaria virulenza e potenza che, ripeto in poche settimane, si e realizzata una serie di mutamenti nel comportamento di massa e la gente è stata letteralmente costretta a fare quello che i detentori della comunicazione decidevano.
Racconto queste cose di tutta la fase, diciamo, "eltsiniana", perché spesso mi capita di discutere con i cosiddetti colleghi giornalisti o i "grandi" conduttori televisivi (facendo qualche nome Maurizio Costanzo, stamattina ero in convegno con loro, Gad Lerner, Ferrara, l'elenco potrebbe continuare, per non citare Bruno Vespa) e scoprire con straordinario curiosità che questa gente non conosce questi avvenimenti o fa finta di non sapere, forse le sa ma spesso, francamente, mi pare di capire il contrario.
Non si rendono minimamente conto di quello che stanno facendo, che è ancora peggio, perché questo da diritto alla loro falsa coscienza e li aiuta a sopravvivere di fronte alla quantità incredibile di violazioni della ecologia della mente di milioni di persone che loro perpetrano senza neanche rendersene conto (questo se non altro in molti casi).
Per esempio mi ricordo di aver visto la recensione di Gad Lerner a un libro splendido che io vi suggerisco di leggere (visto che siamo in sede di biblioteca farò due o tre proposte di lettura): "Homo Videns" di Giovanni Sartori. E' un libro che per me e stato straordinariamente istruttivo, erano cose che in parte pensavo ma nella pubblicazione le ho trovate organizzate e fortissimamente argomentate. Bene, leggetevi questo libro, "Homo Videns" di Giovanni Sartori, libro che è passato quasi nel più completo silenzio, recensito si e no in due o tre posti. Pensate: questo libro, fondamentale per la cultura italiana, è stato recensito si e no da due giornali. Una delle recensioni era quella di Gad Lerner che lo ha fatto letteralmente a pezzi dicendo che era una sciocchezza, una visione unilaterale dei media, che si offendeva l'intelligenza … A proposito questo dell'intelligenza del pubblico è un argomento che sentirete migliaia di volte … si dice che si offende l'intelligenza degli spettatori perché la gente si sa difendere. E questa è la peggiore delle ipocrisie!.
Tornando al discorso precedente, mentre leggevo l'articolo di Gad Lerner ho capito che non sapeva ciò di cui stava parlando perché diceva che non è vero che la televisione manipola poiché questa spesso può far vedere delle cose semplicemente cosi come sono, che c'è una verità nell'immagine.
Gad Lerner non aveva capito, o per lo meno così appariva dalle cose che diceva! Scriveva e non aveva capito che MAI un'immagine rappresenta la realtà. MAI. Un'immagine è sempre una mediazione, sempre. Un paesaggio di montagna, attraverso uno schermo televisivo o cinematografico, non è mai un paesaggio di montagna. E' un paesaggio di montagna, più colui che ha girato quelle immagini, più la velocità con cui ha girato le immagini, più la panoramica, più i primi piani, i piani lunghi che ha fatto e da tutto questo nasce un intero discorso sul linguaggio. Sul linguaggio della televisione.
Tutti siamo analfabeti, di questo linguaggio tutti siamo analfabeti, a cominciare da chi vi parla, perché nel momento in cui una persona si siede davanti alla televisione e dimentica di essere un essere razionale anche lui diventa analfabeta, si siede e pensa che sia finita l'attività intellettuale attiva e cominci l'attività passiva della ricezione e in quel momento ha perduto il controllo del mezzo. Il mezzo è manipolatorio per eccellenza ed è manipolatorio in tutte le circostanze, non importa chi lo usi, non ci sono dei buoni manipolatori o dei cattivi manipolatori, questo bisogna saperlo fin dall'inizio.
Meglio saperlo cosi la manipolazione sarà meno subdola, ma se non lo sai la manipolazione c'è lo stesso. Su questo poi tornerò più avanti magari nel corso della discussione che spero ci sia dopo.
Questo appena espresso è un punto chiave.

L'altro punto interessante che volevo ricordarvi è il seguente. Pensate a questo: la televisione è diventata l'elemento centrale della vita di milioni, anzi di miliardi di uomini. Per almeno di un miliardo e mezzo - due miliardi netti di persone la televisione è diventata l'elemento dominante della loro vita, quando dico dominante dico che per ore e ore la televisione è protagonista della loro vita.
E a tale proposito quante sono le ricerche sulla televisione? Pochissime. Abbiamo in Italia, non voglio offendere nessuno perché ci sono sempre le eccezioni, se non sbaglio 21 facoltà di Scienze della Comunicazione. Io ho girato un po' per l'Italia e ho parlato con gli studenti e con i professori di queste facoltà e, vi dico la verità, sono uscito con i capelli (già ce li ho così…) ritti due volte sulla testa!!!
Perché quello che si insegna in queste università non ha niente a che vedere con quello che di cui vi sto parlando io adesso. Non si fa ricerca, non si studia nulla, non si sa nulla.
Poi qualcuno si stupisce se Maurizio Costanzo diventa professore della facoltà della Scienza di comunicazione della Sapienza. Volete che si faccia ricerca in una Università che sceglie Maurizio Costanzo come Professore? E' ovvio che non si ricerca, eppure la televisione è la questione più importante della vita quotidiana di milioni e milioni di italiani. E non si fa ricerca su questi aspetti.
(In effetti in america hanno fatto una ricerca, la verità è che gli americani sono già stati lobotomizzati in massa e in modo irreversibile purtroppo.)
A proposito di questi temi, altra lettura che vi suggerisco è: "Neil Postman "Divertirsi da Morire" (edizioni Reset) sociologo americano, un libro che è stato scritto, mi pare, 14 anni fa e pubblicato negli Stati Uniti. Da noi è arrivato con un ritardo di 14 anni. Se lo leggerete capirete il titolo, perché "divertirsi da morire" è inteso letteralmente e vi sarà chiaro come è avventa la lobotomizzazione di massa di 200 milioni di americani nel corso di 30 anni. Un altro titolo che vi propongo è "Stupid White Man", forse molti di voi lo hanno già letto, mi auguro di sì. Questi appena citati sono due libri fondamentali per capire che cosa è avvenuto attraverso la televisione nella popolazione americana. Così quando leggerete i sondaggi che fanno sì che un presidente semi-analfabeta sia riuscito a diventare uno che ha il consenso del 75% (anzi che aveva) dei suoi concittadini capirete perché. Solo attraverso questo si capisce: solo attraverso la manipolazione della televisione.
Un altro bel libro che vi suggerisco è "L'età dell'oro" di Gore Vidal, grande romanzo che, letto in trasparenza, è la storia della televisione americana. C'è una frase bellissima che racconta tutta la fase in cui la televisione è entrata nella politica: in una scena del libro c'è un gruppo di senatori americani che si incontrano, e improvvisamente, per la prima volta, negli anni '50, compaiono i riflettori grossissimi, visibili, la gente non è ancora abituata. Arrivano le telecamere enormi, difficili da spostare, e uno dei personaggi dice: "E' arrivata la televisione, Dio salvi i più brutti!". Frase fantastica!
E è così che comincia tutta la faccenda.

La frase del romanzo di Gore Vidal racchiude una profondissima verità: il passaggio della politica dall'"Homo Legens" all'Homo Videns. Da quel momento in poi è l'immagine che determina tutto, è la fine dei programmi politici, è la fine delle idee ed è l'inizio della civiltà dell'immagine, cioè della politica come immagine.
Difficile sperimentare quindi, dicevamo, e l'università non sperimenta.
Non sperimentano perché questo della televisione è il tabù fondamentale, QUI è il potere, quello di cui stiamo parlando adesso è il potere con la P maiuscola, l'unico, vero, potere della società moderna.
Ecco perché non si fa ricerca. Perché non si deve sapere, QUESTO è il potere.
Però in alcuni luoghi, se stiamo attenti, qualche esperimento ce l'abbiamo e possiamo analizzarlo. L'Albania è, ad esempio, il nostro terreno di esperimento. L'Albania era un paese miserabile, comunista, che non aveva quasi la televisione, ma il suo destino l'ha collocata a una distanza sufficiente dalle nostre coste da potere vedere i nostri 6 canali fondamentali. E nel loro silenzio, con le loro televisioni in bianco e nero, per anni hanno visto le nostre televisioni, e hanno imparato la nostra società dalle nostre televisioni…capite? Vivevano in un altro paese e vedevano l'Italia attraverso le sue televisioni, e cosa hanno immaginato dell'Italia? Che l'Italia fosse fatta di donne nude, di lustrini, di bei prodotti, di macchine lussuose e fantastiche, di frigoriferi, di grandi appartamenti, di enormi divani e così via discorrendo: in poche parole la Pubblicità.
La pubblicità e, naturalmente l'intrattenimento. Per quanto riguarda i telegiornali, cosa volete che importino. I telegiornali sono un microscopico segmento del palinsesto quotidiano, circa il 4-5%, il resto, il 96% è pubblicità e intrattenimento in questo preciso ordine, ormai.
In Albania hanno imparato questo e hanno naturalmente scoperto poi che non era così. Ma questo ci dice che l'immagine che la televisione produce è essenzialmente falsa ce lo conferma con l'esperimento l'Albania.

La televisione presa nel suo insieme, come oggetto, elettrodomestico che produce comunicazione, è sostanzialmente falsa. Non dico manipolata, non dico parzialmente falsa, dico FALSA! E noi viviamo immersi in questa fabbrica di sogni che comunica quotidianamente una valanga di falsità, di ideologie, di stereotipi, di ideuzze, di idee grandi, piccole, medie, di valori.
Ci sarebbe da aprire una piccola parentesi: la sinistra, tutta la sinistra includendo anche una cospicua parte di mondo cattolico, di tutto questo non ha capito niente!
Sono stati per anni a discutere della "par condicio". Cosa era la "par condicio": era misurare quanti minuti si danno a D'Alema, quanti minuti si danno a Berlusconi, quanti a Rutelli. Questi non avevano capito che la "par condicio" non serviva assolutamente a niente.

E quando sono andati al governo quelli della sinistra hanno gestito la televisione esattamente come quelli di destra. Anzi, la televisione di Stato ha copiato la televisione di Mediaset facendo esattamente le stesse cose. Prova questa, che non hanno capito niente. Ma anche questo, all'interno dei temi della manipolazione, è un dettaglio.
Ritorniamo al tema principale. Noi ci troviamo con il discorso della televisione dentro il tema grande della democrazia perché non c'è più nessuna possibilità di pensare una società democratica quando la grande massa della popolazione di questa società non ha più le informazioni essenziali per orientarsi nella società in cui vive.
Aggiungo una cosa che, sono certo, scandalizzerà qualcheduno molto di sinistra, la dico con tutta la brutalità del caso perché io ho scoperto, andando ai Social Forum in giro per il mondo, che c'è un sacco di gente che di sinistra non ha capito niente, neanche loro. Non hanno capito, per esempio, questi ragazzi e non ragazzi, che ormai sono entrati in una fase, data la potenza dei mezzi che abbiamo di fronte, in cui i bisogni dell'individuo non sono più bisogni materiali.
Perché se tu disponi di uno strumento di comunicazione sufficientemente potente puoi rovesciare la scala di valori. E improvvisamente puoi scoprire che c'è un sacco di gente che non ha una lira in tasca ma desidera spasmodicamente solo le cose che non può comprare. Ci può anche essere della gente che non ha la pensione ma non riesce a capire perché il problema della pensione viene messo nell'agenda del giorno all'ultimo posto dei telegiornali e, siccome l'agenda del giorno è quella che fanno i media, la pensione, che pure è vitale per sopravivere, finisce nell'ultimo posto nella graduatoria dei desideri.
Noi assistiamo al fatto che nelle bidonville di San Paolo la gente si compra la televisione prima di procurarsi la colazione. E nelle bidonville la gente sta attaccata all'intrattenimento che, secondo il nostro pensiero razionale, la offende, a violenta, la umilia. Come mai? Come mai si decide di comprare la televisione e di non mangiare?
Vedete che c'è un rovesciamento dei valori. Allora dove siamo? Noi siamo in una situazione in cui si dice tutta una serie di cose e si fanno esattamente le cose opposte. Mi pare molto sovietica, ai tempi dei sovietici si diceva che i cittadini sovietici dicevano una cosa, ne pensavano una seconda e ne facevano una terza. Era il pensiero della doppia verità. Noi ci siamo dentro totalmente. Parliamo di pluralismo e libertà d'informazione. Quale pluralismo? Voi al mattino vi alzate, comprate un giornale, poi ne comprate un altro (se avete i soldi, se no potete guardare le prime pagine) e cosa scoprite? Scoprite che sono tutte uguali! E perché sono tutte uguali? Ma perché ormai si è formata una macchina, è una macchina quella che agisce, un meccanismo, una specie di tritasassi che costringe tutti a essere unificati.
Volete un esempio?
Quando ero nell'ultima guerra afgana nella valle del Panshir, una sera, (scrivo ogni tanto anche per La Stampa, sempre meno perché le cose importanti non le vogliono neanche se sono degli scoop e le cose meno importanti non interesano a me e quindi non le faccio) ero lì per La Stampa, squilla il telefono Erano le 19, ero chiuso nella valle, non potevo uscire, e mi dicono: "Guarda che è cominciato l'attacco su Kabul" "Come?" dico io "Ne vengo adesso, due ore fa ero lì."
Non mi risultava, non avevo visto carri armati, non c'erano i preparativi dell'attacco. Com'era possibile? Eppure c'era un collega del Corriere della Sera che sta dicendo, via radio, a radio 24 che era in corso l'attacco a Kabul da parte dei mujaidin.
Mi dicono: "Non puoi andare fuori a vedere?" "No, non posso andare fuori a vedere." rispondo "E' vietato, non si passa, c'è un blocco. Di notte non si passa"
Allora il mio interlocutore dall'atra parte dice: "E va bene, purtroppo dobbiamo fare così . Non hai le informazioni."
"Ma io non ho le informazioni probabilmente perché 'informazione non c'è. Avete verificato bene?" dico.
"Guarda" mi replicano "sto sentendo adesso con l'altro orecchio che lui sta dicendo che è su un blindato che sta andando a Kabul insieme ai mujaidin. Cosa facciamo?"
"Tu non scrivere niente con la mia firma." replico "Poi mettete come volete. Se le agenzie danno la notizia fate come volete ma con la mia firma, nel mio pezzo questa notizia non la date perché secondo me non è buona."
La Stampa, l'indomani mattina, è uscita con la notizia che titolava che i mujaidin stavano andando a Kabul. Naturalmente la notizia era falsa. Il Corriere della Sera l'ha data in prima con un titolo grosso così, La Stampa piccola.
L'argomentazione che mi diedero di questa scelta fu: "Noi non potevamo non darla, perché se non la davamo, comunque, avremmo fatto la figura di quelli che hanno preso il buco."
E così funziona sempre ormai. E non solo nella concorrenza tra giornali ma anche tra i giornali e la televisione. I giornali la mattina riproducono esattamente quello che il tg1 e tg5, fondamentalmente, hanno prodotto la sera prima. Se voi provate a dire a qualche direttore di questi giornali "ma perché correte dietro a delle notizie palesemente false?" loro ti rispondono sempre la stessa cosa: "Se noi non lo facciamo passiamo per quelli che hanno perso la notizia" E quindi preferiscono dare una notizia che sanno essere falsa pur di non passare per gente che ha perduta la notizia. Questo vale su scala mondiale.
Ci sono due agenzie di stampa: soltanto 2, che determinano tutto ciò che viene prodotto su scala mondiale. Queste due agenzie sono la Reuters e la Associated Press. Tu non puoi eludere quello che hanno fatto queste due agenzie principali. L'ansa cosa farà di conseguenza? Riprenderà la Reuters dicendolo o no, non ha importanza. La Reuters si è strutturata in modo tale da avere in giro per il mondo almeno 300 punti di corrispondenza. Nessun può permettersi niente del genere. Cosa vuol dire?
Vuol dire che la Reuters produce notizie scritte e, soprattutto adesso, notizie televisive che sono quelle che determinano ciò che in tutto il mondo si vedrà il giorno dopo. Questo è il massimo della uniformizzazione del sistema informativo.
Potete fare tutti i giorni questa prova. Le fotografie che voi vedete sui giornali sono quasi tutte di fonti ristrettissime: 4-5 grandi agenzie producono tutte le fotografie.
Avrete notato questo in certi momenti. L'avrete visto l'altro ieri la fotografia del soldato con la mano sul casco davanti alla caserma di Nassyria dove sono morti i soldati, è identica sui 3 giornali principali: La Stampa, Corriere della Sera, La Repubblica. La stessa fotografia virata addirittura con lo stesso giallo. Identica. Queste sono prove che tutti possono fare e constatare facilmente.
Ritornando al livello mondiale, ma finora questo riguarda un piccolo segmento della comunicazione e dell'informazione, pensate che le cose sono molto, molto più serie di quelle che appaiono. La pubblicità e' diventata mondiale. Lo raccontavo oggi. Lo racconto anche a voi. Siccome giro per il mondo mi è capitato di vedere negli ultimi due anni dappertutto la stessa pubblicità identica tradotta in varie lingue, dal cinese al russo all'inglese, dal francese allo spagnolo, dal portoghese all'italiano. La pubblicità della Hyundai, una macchina coreana. Bellissima pubblicità, lo dico sempre, a che la ideata darei il premio Pulitzer mondiale. La pubblicità era fatta cosi: come quelle che vedete più o meno normalmente, piena di roba tecnologica, partiva da specie di ingrandimento fino ad "scendere" alle più piccole particelle della materia e poi l'inquadratura tornava "in su", ad allargarsi, fino a vedere la macchina completa bella, rutilante, colorata, stupenda, e poi si sentiva sotto una voce fuoricampo che diceva: "PREPARATI A VOLERNE UNA."
Sentirla in tutte le lingue fa un grande effetto perché l'effetto è potente in tutte le lingue che io sono in grado di capire. "PREPARATI A VOLERNE UNA."
Uno slogan fantastico, spiega tutto, tutto quello che sta accadendo. Noi siamo arrivati in un'epoca in cui praticamente tutti i bisogni che abbiamo sono stati preparati da qualcun altro che ha deciso che noi dobbiamo prepararci a desiderarli. Qualcuno ha qualche dubbio al riguardo? Lo so, se fosse qui, Gad Lerner mi direbbe che ho una visione un po' pessimistica dell'Uomo. Ahimè! Gad Lerner potrebbe fare con me molte verifiche di questa constatazione.
Una ve la dico subito tornando al discorso degli Stati Uniti d'America, che stanno facendo tutto quello che fanno… come sappiamo sono l'unico paese al mondo in cui il risparmio non c'è più. Il risparmio è diventato negativo. In termine tecnico vuol dire che gli americani spendono da anni molto più di quello che producono.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che la massa dei bisogni che è stata iniettata dal sistema mediatico su una intera popolazione di topi da esperimento ha portato al risultato che questi topi non sono più capaci neppure di fare i conti in tasca di quello che hanno. Questo spiega perché gli Stati Uniti d'America sono il paese più indebitato del mondo. Non so se per Gad Lerner sarebbe una spiegazione sufficiente. Per me lo è.
Saltando "di palo in frasca" si arriva, con questo ragionamento, a capire perché siamo in guerra. Siamo in guerra perché il sistema mediatico ha prodotto un paese, che è il paese più indifeso da questo punto di vista, che è diventato ormai incapace di frenare le sue pulsioni al consumo. E siccome consumare significa avere delle merci, ci sono due modi per procurarsele, o le produci o le pigli! Le pigli a mano armata!
Questo è quello che sta accadendo, se volete una spiegazione generale che è assolutamente vicina alla realtà delle cose…se non proprio la realtà delle cose.
Ho portato l'esempio sull'informazione, quello sulla pubblicità. Su ciascuno di questi naturalmente ci sarebbe una intera conferenza da fare.
Ora passo al terzo punto che riguarda l'intrattenimento. Tra una chiacchiera e l'altra sul pluralismo dell'informazione, il rispetto dei diritti umani, sulla meravigliosa civiltà occidentale, fatta di libertà siamo arrivati ad un punto in cui i processi di concentrazione mediatica solo tali che ormai l'intero meccanismo della produzione di intrattenimento, pubblicità e informazione è nelle mani di sei multinazionali, che sono tutte, più o meno, americane.
Ma questo sarebbe poco se non capissimo che quando noi ci sediamo davanti a un film come Matrix Reloaded o Matrix Revolution siamo di fronte a mostruosi processi di manipolazione intenzionale, che non c'è più un ragionamento oggettivo in questo, noi stiamo già passando ad una fase in cui coloro che hanno in mano questo potere sanno di averlo e si organizzano per il futuro.
Matrix è un esempio illuminante di questo. Chi è che lo produce? Anzi faccio un passo indietro, chi è che ha prodotto, per esempio, un film come Pearl Harbour? Il Pentagono. Il Pentagono degli Stati Uniti d'America. "Armageddon", sapete chi l'ha prodotto? Il Pentagono. E il regista di Armageddon e di Pearl Harbour sono la stessa persona, lo stesso il regista. Stessi gli sceneggiatori, stessi i produttori.
Ma tornando a Matrix, sono andato a vedere Matrix 2 (il terzo non l'ho ancora visto) in una multisala della Metro Goldwin Mayer e prima di vedere il film mi sono visto sei promo: altri sei film della Metro Goldwin Mayer. E quando ho guardato Matrix 2 mi sono reso conto che era uguale agli altri sei promo, esattamente la stessa cosa. Ormai è una produzione in serie che ha tutte una serie di contenuti e di meccanismi fantastici. Uno dei quali consiste nell'abbassare il livello di percezione del pubblico.
Mi spiego meglio. Questo vale per i bambini, infatti lo hanno sperimentato sui bambini, hanno scoperto che funziona e adesso lo stanno usando su scala di massa per gli adulti. E come si fa? Producono formidabili accelerazioni nel montaggio. Più veloce è il montaggio meno è la capacità di percezione. Se avessi le possibilità economiche per fare una ricerca mi piacerebbe andare ad analizzare questi film dal punto di vista del contenuto subliminale.
Ci sono tre o quattro impatti emotivi che agiscono uno sopra l'altro. Sono stati fatti degli studi in questo senso, e bisognerà farne altri, che hanno scoperto che le capacità reattive dei bambini diminuiscono, si abbattano e producono ansia. Io lo capisco perfettamente perché l'ho scoperta dentro di me: l'ansia. Se io mi trovo di fronte ad una cosa che non riesco a decifrare sento alla lunga un processo di inquietudine perché non afferro ciò che mi viene detto. E come se voi parlaste di fronte ad una persona che dice delle cose che continuamente non riuscite a capire, o riuscite a capire soltanto i brandelli. Pensate che effetto può produrre sulla mente di un bambino di 5 - 6 anni quello che si vede in un videoclip? Che è tutto allusivo. Alla fine il bambino si troverà in una situazione di inquietudine dovuta a mancanza di messaggio. Si e già accertato che un bambino sottoposto a questo bombardamento perde facoltà intellettive. LE PERDE.
Vi do un altro suggerimento di lettura: Jared Diamond, Einaudi, "Armi, acciaio e malattie" tra le tante cose bellissime che in questo libro sono raccontate, (di fatto è la storia degli ultimi 13.000 anni dell'umanità) lui fa un esempio: è stato per molti anni in Nuova Guinea e conosce bene la situazione di quel paese. Ha scoperto che i bambini della Nuova Guinea sono molto più intelligenti dei nostri. Più ricettivi, più capaci di capire. Trasportati in un altro ambiente sarebbero dei geni. Dove sta la differenza con "i nostri"?
Lui la scopre nel modo in cui vivono i bambini. Certo quando diventano più grandi, vivendo in un ambiente senza libri, senza istruzione, senza possibilità di comunicazione culturale adeguata si entra in un altro discorso.
Ma fino a che sono nella loro fase creativa, produttiva del loro cevello, dei loro "circuiti" cerebrali, questi bambini sono di gran lunga più capaci dei nostri. Perché? Perché parlano, discutono con i grandi, con i bambini, vivono all'aria aperta, giocano con le loro mani, si creano loro i giocattoli, non hanno tecnologie da utilizzare quindi devono inventare tutto e devono comunicare tutto ciò che inventano, devono imparare la vita stando fuori dalla casa. Il risultato? Crescono dei bambini molto intelligenti, mentre i nostri hanno una intelligenza depressa. Capite che con questo si apre un capitolo enorme.
Ma torniamo al discorso della concentrazione: Metro Goldwin Mayer. Chi sono questi giganti? Sono giganti sinergici, come si dice in linguaggio tecnico. Prendetene uno (magari sono un po' in crisi per altre ragioni ma sostanzialmente sono loro che guidano la danza e la guideranno, temo, per gli anni a venire): America On Line Time Warner, è il prodotto due fusioni successive. Prima la Warner compra la CNN e diventano Time Warner, ed è già un grande impero, un colossale impero. Infatti se metti insieme tutto ciò che rappresenta la Metro Goldwin Mayer: cinematografica, televisiva, 35 canali televisivi, 25-30 radio, 12 case editrici, 15 giornali, 14-16 riviste settimanali (non ricordo tutte le cifre ma le troverete perché le stiamo pubblicando).
Time Warner quindi viene assorbito da, la grande sorpresa, la grande novità, American On Line, il più grande portale americano, portale di internet, lo dico con un po' di ironia, fino a 5 anni fa internet ci veniva presentato dai suoi adoratori come il regno della libertà. Non lo è mai stato, sia chiaro, ma adesso non lo è più per niente.
L'idea per cui internet sarebbe stato il luogo dove noi saremmo andati a trovare le informazioni vere da tempo è finita, ci ridono sopra perfino gli americani, anche perché è impossibile, non abbiamo il tempo per fare queste operazioni, sono molto più veloci quelli che hanno la proprietà dei mezzi di comunicazione. Hanno già fatto tutto, hanno già trasformato internet in una sentina pubblicitaria, in un luogo dove non è più possibile distinguere la verità dal falso e dove c'è di tutto.
Quindi internet (che io uso tutti i giorni e verso il quale ho il massimo rispetto e che è straordinariamente importante ma in un altro senso) è importante non perché è il regno della libertà ma perché è il regno dell'organizzazione.
Questa è la grande novità che è già stata utilizzata e sarà, spero, utilizzata fino a che non faranno diventare a pagamento anche internet. Infatti questo è il passaggio successivo. Ce la toglieranno facendocela pagare. E' già in corso, ma vedremo.
Fino ad ora noi abbiamo fatto (quando dico noi dico noi che ci stiamo difendendo, noi che siamo qui, noi che parliamo di queste cose, noi che cerchiamo di spiegare) Seattle. Senza internet non ci sarebbe stato, non ci sarebbe stata Genova 2001. Ma non è la libertà dell'informazione, internet è stato lo strumento di organizzazione. Io ho adesso ho un sito che si chiama Megachip e sto incominciando a capire che potenza costituisce avere un sito, per la comunicazione. A questo punto posso parlare, ma non con 10, ma con 10000 persone, e allora posso comunicare, ma non è che gli comunico informazione alternativa a quella dei giornali o delle televisioni, ma gli comunico quello che io penso e quello che voglio fare con loro.
E se loro sono d'accordo comunicheranno con me. Questa è organizzazione, non è libertà di informazione. Una cosa del tutto diversa.

Tutti quelli che pensano che i siti servano a fare controinformazione sono dei simpatici, volenterosi, illusi.
Tornando al discorso precedente. America On Line si compra Time Warner
Se lo compra proprio così, America on Line è più potente di Time Warner, un portale è diventato il CENTRO del potere. Lo sapete quanti indirizzi e-mail, diretti o indiretti, sono nei forzieri, si fa per dire, di America On Line? Quasi mezzo miliardo.
American On Line controlla, filtra in un modo diretto ed indiretto gran parte di quello che voi state scrivendo sui vostri siti. Ma anche se non usate American On Line ma usate Yahoo, Libero, Virgilio, non ha nessuna importanza. Il controllo è totale. Tra l'altro esiste un discorso del controllo politico su tutto questo che sta diventando ormai dominante. Ma io mi limito a parlare di quello indiretto: una creatura come American On Line - Time Warner è in grado di costituire una sinergia tale che tutti quelli che sono dentro non possono più prescinderne.
Tutti i giornali della catena non potranno mai intaccare, o attaccare, o colpire altri pezzi di questa creatura che è interessata anche a tutto il merchandising che va molto al di là della questione della produzione squisitamente intesa come prodotto di intrattenimento pubblicitario. American On Line, Time Warner ha comproprietà in centinaia e centinaia di altri conglomerati. Quindi tutta questa struttura esclude in linea di principio ogni pluralismo perché non si può più toccare niente di ciò che ha a che fare con coloro che hanno in mano questa struttura.
Quindi i giornalisti non sono più liberi, e se ne accorgono. Naturalmente sono tutti processi mediali, processi intermedi, che, è evidente, intaccano e colpiscono anche giornali che appaiono come progressisti.
Prova a fare una discussione su Auditel a La Repubblica. Noi (Megachip) abbiamo promosso una campagna contro Auditel. La campagna ha raggiunto un certo livello. Corrado Augias se ne è interessato e La Repubblica ha fatto una tavola rotonda dove io … sono stato escluso! C'era, però, … Costanzo!
Sapete perché? Non mi sento offeso per questo semplicemente perché so che il mio nome è arrivato sul tavolo del direttore di La Repubblica che ha detto " No, no, lui no"
Perché? Ma perché non si può parlare contro Auditel cari amici. Non si può! Se parlate contro Auditel non riceverete più una quota pubblicitaria e quindi perderete quattrini… che sono poi quelli che decidono la vita, la sopravvivenza di giornali, riviste, telegiornali, ecc…
Questo è il meccanismo. Capite cosa vuol dire? Vuol dire che siamo di fronte a una macchina potente, strettamente collegata, come è evidente, al potere, ai poteri. Questa macchina agisce orma a ritmo frenetico. Più la crisi si aggrava più questa macchina diventa omnicomprensiva.
Concludo su questo. Mi scuso perché concluderò in politica. Mi scuso perché apparentemente sembra un tema lontano ma non lo è perché è un punto da cui parte tutto e verso cui tutto va anche se purtroppo molti di noi non l'hanno ancora capito.
Si va verso una situazione in cui le prossime elezioni politiche in Italia, europee e parlamentari, non saranno più elezioni democratiche. Non è possibile che ci sia una consultazione democratica in queste condizioni, come spero abbiate capito.
Non penserete mica che con il monopolio totale delle televisioni coloro che hanno il potere lascino passare le idee. Guardate cosa è successo in questi tre giorni (riferito al dopo strage di Nassirya). In questi tre giorni di lutto nazionale questa macchina "militare" è riuscita a spostare l'opinione di 2-3 milioni di persone. In 2-3 giorni.
Noi avevamo, secondo tutte le statistiche, alla fine della guerra irachena, il 70% della popolazione. Con "noi" intendo dire "noi" che siamo contro la guerra. Tutti i sondaggi lo dicevano, persino quelli di Berlusconi dicevano che il 70% degli italiani era contro la guerra. Nello spazio, ripeto, di tre giorni, anche se le emozioni hanno avuto il loro peso, quello che hanno fatto i media credo che ve ne siate accorti tutti. TUTTI i media con l'eccezione di due soli giornali in Italia, purtroppo, Il Manifesto e Liberazione, hanno fatto un'operazione di canagliesca trasformazione dei dati, e delle motivazioni, e delle responsabilità, con il risultato finale che tutti i sondaggi dicono che adesso siamo 50% e 50%.
Pensate!
Significa aver spostato 2-3 milioni dicono, io dico 4-5 milioni di persone da una posizione a un'altra posizione. Attenzione perché se una persona come Paolo Mieli, tutto dire, arriva a dichiarare: "Attenzione (lo dice per interposta persona) che in queste condizioni noi stiamo rovesciando i contenuti della democrazia. Si può andare a votare ma non si sa più con quali criteri e in quale contesto si vota.", vuol dire che dobbiamo essere fortemente preoccupati.
Ne accadranno di cose da qui alle prossime elezioni. E ciascuna di queste sarà una prova mediatica di enorme importanza rispetto alla quale noi, allo stato attuale delle cose, non abbiamo strumenti di difesa. Se io "giro" e sono venuto qui a parlare è perché sono convinto che la cosa più urgente adesso è cominciare ad affrontare la discussione sugli strumenti di difesa, come difendere l'opinione pubblica democratica da questa situazione. Naturalmente il compito è immenso. Lo dico e me ne rendo conto perfettamente. Noi dobbiamo adattare la nostra politica, la politiche delle forze democratiche ad un cambio antropologico, chiamatelo come vi pare, un cambio strutturale, organizzativo. Noi non abbiamo né le abitudini, nè le idee, né gli strumenti organizzativi per rovesciare questa situazione. Sono assolutamente convinto che: o facciamo questo oppure dovremo rinunciare alla democrazia!



27/11/2003
Conferenza "I media e la produzione della verità in guerra" di Alessandro Dal Lago a "Media e Identità" presso la Biblioteca per l'Infanzia "De Amicis" di Genova

Introducono l'incontro il direttore della biblioteca De Amicis Dott. Francesco Langella ed il sociologo Massimiliano Di Massa.

Alessandro Dal Lago:

Parto con la definizione di questo particolare tempo di guerra: cosa vuole dire guerra oggi rispetto al passato.
Mi perdonerete se parto da lontano ma è fondamentale, secondo me, partire da questo punto per comprendere le particolarità, le specificità, di una situazione di guerra che, lo dico subito, non riguarda solo questa guerra in Iraq ma riguarda la guerra almeno da un quindicennio (dalla fine degli anni '80) che non ha eguali nella storia.
E' vero che nulla ha eguali nella storia però, non da un punto di vista soltanto mio ma diffuso tra gli osservatori di questo fenomeno, il periodo delle cosiddette "guerre contemporanee" o "nuove guerre" (che a me non piace tanto come definizione ma utile per intenderci), le guerre in cui il mondo occidentale o mondo sviluppato, diciamo così, è coinvolto viene definito periodo delle nuove guerre.
E' fondamentale capire come questo periodo segni delle rotture rispetto a conflitti precedenti, non dico né in bene o in male (se è possibile parlare di bene e male in questo campo). L'epoca è fondamentalmente diversa e ha caratteristiche diverse. Per entrare subito in merito il '900, quindi il secolo che è subito dietro le nostre spalle, è lì, ma è "l'altro secolo", si definisce come secolo della guerra totale. Totale nel senso che si tratta di conflitti militari che occupano, tra l'altro, gran parte del secolo.
Vi faccio un esempio molto banale: gli storici considerano che le due guerre mondiali non siano episodi diversi, opposti o comunque del tutto distinguibili, ma siano invece due episodi dello stesso grande conflitto aperto grosso modo nel 1914 e chiuso nel 1945. Quindi una guerra di 30 anni, si potrebbe dire, del 900 che ha avuto due episodi salienti. Così come il periodo successivo dal 1945 al 1989 (quindi altri 44 anni che con i 30 precedenti sono quasi 75 anni su 100) è il periodo della guerra fredda che, sarà stata fredda quanto volete, ma è stata ampiamente combattuta in diverse forme.
Questo vuole dire che in realtà se noi prendiamo gli Stati Uniti, che sono il paese che più di tutti si è impegnato in questi conflitti, possiamo dire che, pur lasciando perdere episodi minori di vario tipo, sono in guerra 75 anni su 100, forse anche 100 su 100. Quindi un secolo che viene definito da alcuni breve, da altri lungo, comunque è un secolo militare, un secolo bellico. Rispetto a questo punto osservo anche che la consapevolezza da parte non solo di storici ma anche di sociologi, osservatori, filosofi, ecc. , è abbastanza particolare. Perché l'importanza che viene data al conflitto militare in varie forme, caldo o freddo, dispiegato o combattuto, oppure minacciato è abbastanza scarsa, ovvero voi non trovate un riflesso di questo fatto: cioè che il '900 è stato il secolo più combattivo della storia, non lo trovate riflesso nel pensiero filosofico, nel pensiero politico, nel pensiero sociologico, ecc.
Questo accade per motivi che poi cercherò di esporre alla fine dell'intervento. Già questo fatto crea uno straordinario problema e spiega anche, come e perché, sia così difficile oggi capire che noi ci troviamo in uno stato particolare di guerra ma pur sempre in uno stato di guerra.
Dicevamo che il secolo trascorso è il secolo della guerra totale nel senso che quando viene dichiarata una guerra o quando ci si prepara a combatterla o quando si vive, come è stato durante il periodo della guerra fredda, in una situazione di guerra sospesa, tutte le energie economiche, politiche (non parliamo di quelle militari), psicologiche, teoriche sono incanalate verso, sotto l'orizzonte della guerra. In questo senso è totale.
Il concetto di guerra totale è stato coniato nei primi anni di questo secolo, intorno agli anni '20, dall'allora ex maresciallo dell'Impero Prussiano intendendo con guerra totale una guerra in cui in nome della vittoria nessun, dico nessun, obiettivo poteva essere considerato estraneo alla guerra in senso stretto.
L'Italia ha avuto l'onore, molto dubbio devo dire, di avere prodotto il teorico più importante della guerra totale: il Generale (…) che è stato il teorico del bombardamento strategico, fino alla fine dei paesi avversari, senza distinzione tra combattenti e non combattenti. Cito questo nome perché se voi andate a vedere sui siti e digitate su "google" il nome ci sono 144.000 siti, soprattutto anglo-americani, che lo citano come antesignano e fondamentalmente più importante teorico della guerra assoluta, della guerra totale che viene in qualche modo riscoperta oggi. Mettendo quindi piccoli "paletti" teorici siamo dentro ad un argomento che spesso non viene citato nelle discussioni di conflitti contemporanei ma di cui esistono però presupposti piuttosto precisi.
Dico che il secolo precedente è stato il secolo della guerra totale anche se non sempre la guerra totale è stata portata fino alle estreme conseguenze. Diciamo che in alcuni momenti topici questo è stato fatto.
L'altra sera ho visto il film su Pearl Harbour che (mi chiedo chissà perché è andato in onda in questi giorni) dove, potete ricordarvi, che dopo l'attacco gli americani (giustamente qualcuno potrebbe osservare) per ribattere il colpo subito a Pearl Harbour, decidono, nonostante le difficoltà dell'impresa, di andare a fare un bombardamento a Tokio. Il film non dice che quello è stato: un bombardamento non contro obiettivi militari ma contro obiettivi civili. Perché gli americani avevano pensato che, visto che si trovavano di fronte un avversario così difficile come i giapponesi che erano riusciti a distruggergli l'intera flotta a Pearl Harbour, avrebbero incominciato a giocare duro.
La guerra totale è la guerra in cui la popolazione civile può essere colpita e deve essere colpita, secondo gli storici della guerra, perché lo scopo è vincere a ogni costo contro il nemico. Così come non viene raccontata questa storia, e in fondo si tratta di un film, così non viene detto, e non vorrei che le mie parole fossero fraintese, che una settimana prima del primo bombardamento a Hiroshima gli americani fecero dei bombardamenti convenzionali (convenzionale si fa per dire le bombe erano al fosforo al napalm e di altri tipi) che portarono la morte di 250.000 persone in 4 giorni.
Con questo voglio dire come non sempre sia vero in senso stretto che la bomba atomica ha iniziato un'epoca completamente nuova. Naturalmente questo non valeva per i 250.000 che subirono l'attacco convenzionale.
Questa è la guerra totale: la guerra che non ha confini, che non ha limiti, la guerra del 20° secolo in cui sono stati impegnati a titolo diverso molti paesi europei, gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, il Giappone.
Questo periodo si chiude definitivamente (o, se definitivamente è troppo forte, sicuramente) nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e quindi sostanzialmente con la fine del confronto bipolare. Per la prima volta nella storia dell'umanità, e questo è un "bel" problema che ci accompagnerà per molto tempo, c'è un solo potere militare egemone nel mondo. Questo potere militare sono gli Stati Uniti.
Due parole solo per renderci conto di come la questione sia "grossa" e decisiva: oggi gli Stati Uniti, da soli, hanno un budget militare che è pari a quello di tutti gli altri stati della terra messi insieme, comprendendo anche ex potenze come la Russia, potenze emergenti come la Cina e, "potenzine" potremmo dire, coma la Francia, Inghilterra ecc.
Il budget americano, quindi, è pari a quello di tutti gli altri stati della terra. Naturalmente questa differenza non conta tanto dal punto di vista quantitativo ma perché produce una "massa critica". La capacità militare non si calcola in termini semplicemente aritmetici, si calcola a partire dal fatto che questa spesa incredibile, che è stata rinnovata con 400 miliardi di dollari esattamente la scorsa settimana (la conferenza di Dal Lago è stata effettuata il 26 novembre 2003. n.d.r.) è in grado di mettere gli Stati Uniti 30 anni avanti rispetto a qualunque altro stato della terra in termini di acquisizione e produzione di tecnologie militari.
Gli aerei stealth, che sono quelli invisibili ai radar, sono stati inventati intorno agli anni '70 e sono stati impiegati per la prima volta in modo massiccio durante la guerra del golfo. Dio solo sa, anche se si ha qualche indizio su questo punto, quali siano le armi che in questo momento gli statunitensi, che sono peggio di tutti in questo campo, stanno escogitando nella ricerca tecnologica in campo militare.
Il 1989 segna la fine della guerra totale per il semplice motivo che, per dirla brutalmente a rischio di essere tranciante, scompare il nemico globale, quello con cui teoricamente si può combattere una guerra totale. Non c'è più il nemico con la N maiuscola.
Questo fatto pone agli Stati Uniti, e agli altri paesi che sono coinvolti in queste vicende, dei grossi problemi. Siamo di fronte al paradosso di un paese di meno di 300 milioni di abitanti, quindi copre il 5% della popolazione mondiale, che, da solo, è in grado di esercitare una egemonia militare assoluta, quindi potere battere, vincere, sconfiggere militarmente qualunque altro stato della terra.
Al tempo stesso questo paese non esercita, penso sia opportuno chiarire questo, né vuole esercitare minimamente una egemonia politica diretta su tutto il mondo. Gli Stati Uniti non sono in grado di esercitare una egemonia politico/militare sul resto del mondo.
Secondo i dati di fine anno sulla consistenza del Dipartimento della Difesa si sa che gli americani hanno circa due milioni circa di persone pagate dalla D.O.D. (Department Of Defense).
Questo vuol dire che, calcolando gli impiegati civili e soprattutto il gran numero di militari non combattenti (quelli che stanno in retrovia, che si occupano di logistica, trasporti, informazioni, genio), gli americani non possono avere contemporaneamente sul terreno più di 300.000 uomini pronti al combattimento (mi scuso per il linguaggio ma è inutile girare intorno alle parole).
In questo momento più di 100.000 sono in Iraq e 200.000 sono sparsi in 44 paesi in cui gli americani hanno le loro basi. Questo significa che questo è il limite, soprattutto in questo momento di crisi economica, oltre il quale gli Stati Uniti avrebbero giganteschi problemi di bilancio come li avranno quando finirà, se finirà, la sbornia di carattere militaresco.
Questo fa si che gli Stati Uniti siano al tempo stesso un paese egemone in campo militare (possono inviare i loro aerei a bombardare qualunque buco della terra in qualsiasi momento) ma assolutamente non capaci di essere il braccio armato di un nuovo potere mondiale. Questo lo dico perché su queste vicende ci sono abbondanti leggende metropolitane. Gli osservatori si dividono in diverse categorie. La prima è di quelli che hanno già dichiarato la fine dell'Impero Americano e che colgono l'intrinseca debolezza numerica militare degli Stati Uniti, tra questi ultimi, ad esempio, il l'autore francese del libro che si chiama "Il declino dell'Impero Americano". L'altra di quelli invece che ritengono che questo crei una situazione incomparabilmente nuova nel senso che siamo di fronte ad una specie di Grandissimo Fratello, con la GF "ipermaiuscole", il quale in qualunque momento sarebbe pronto ad imporci la sua volontà attraverso le armi.
Io penso che la verità non sia tanto nel mezzo di queste due affermazioni ma stia in un terzo luogo, un luogo in cui fondamentalmente gli Stati Uniti si trovano in una condizione di strapotere politico militare fragile (e ritengo anche che questo sia la causa di una condizione di disordine culturale) quindi non contingente, non provocato da scelte sbagliate (che comunque in questo caso ci sono state) ma tipico della stranissima e particolare egemonia che gli americani hanno.
Disordine globale e, quindi, incertezza globale e, quindi, in questo senso potremmo definire lo stato di guerra contemporanea come uno stato di guerra ubiqua, diffusa, permanente e al tempo stesso dissimulata, perché noi ci troviamo in una situazione di guerra combattuta, convenzionale come era appunto quella del secolo che precedeva. Ci troviamo in una situazione in cui, praticamente, giorno dopo giorno la nostra condizione di abitanti del mondo sviluppato (ma questo vale anche ahimè, purtroppo, in situazioni ben peggiori nel resto del mondo) possa da un giorno all'altro virare allo stato di guerra anche se noi non sempre ci accorgiamo di questo fatto.
E qui voglio citare un episodio che a suo tempo mi fece molto ridere che, premetto è abbastanza comico, ma che dà un po' l'idea di come all'inizio di questo periodo non ci fosse ancora, in senso lato, una percezione chiara del cambiamento.
Nel 1991, quando di fatto tutti capirono che il mondo, l'occidente, i buoni di tutto questo mondo si preparavano ad attaccare Saddam nella prima guerra del golfo, a Milano, città dove abitavo, nel mio quartiere (ma questo è successo in molti altri quartieri) tutti si precipitarono a fare incetta di pasta, pomodoro e scatolette. La parola guerra che veniva già allora ripetuta e che echeggiava dappertutto aveva indotto molte persone, probabilmente anziani, persone che avevano scarse informazioni, a credere che veramente ci fosse una guerra e cioè che, visto che gli avvenimenti stavano andando in un certo senso avremmo dovuto aspettarci bombardamenti, tagli della luce elettrica, ospedali in tilt, e quindi le persone andarono a fare incetta di scatolame nei supermercati. Qualcosa del genere è successo nel 1999 quando, forse vi ricordate, si sparse l'allarme delle possibili ritorsioni dei serbi nei confronti delle città italiane della costa adriatiche. Ritorsioni che non ci furono, né potevano esserci per il semplice motivo che nessun missile serbo aveva la gittata necessaria.
Da allora in poi, benché più o meno ogni anno, anno e mezzo, un conflitto paraglobale esploda, conflitto in cui anche il nostro paese è coinvolto, nessuno si preoccupa minimamente di andare a fare scorte.
La cosa paradossale è che lo stato di guerra di cui sto parlando è che è uno stato di guerra talmente ubiqua, talmente diffuso, quindi talmente normalizzato che in qualche modo noi lo "metabolizziamo" e, anche se certamente c'è paura per il terrorismo (poi vedremo se si tratta di paure realistiche o irrealistiche e mitologiche, per quanto possa giudicare io) sta di fatto che questa evenienza è vissuta in pratica come una sorta di atto del destino, come se dicessimo:"E va beh!...capiterà!"
Ho parlato con dei miei colleghi tempo fa dicendo che se io fossi (e non voglio che le mie parole siano fraintese, sono discorsi puramente in termini tecnici) uno "dall'altra parte" darei un'occhiata, mi occuperei, delle metropolitane…dopo 10 giorni compare la notizia che il Ministro Pisanu sta allertando le metropolitane. Per me questi risultano fatti ovvi.
Ho cominciato a tornare negli Stati Uniti 1 mese dopo l'11 settembre dato che il biglietto costava solo 300 dollari, eravamo partiti da Roma in un Jumbo Jet in 20 su 300 posti disponibili. Nonostante tutto quindi noi facciamo queste cose, lentamente poi tutto torna alla normalità e la gente se ne disinteressa.
Mi scuso per il lungo preambolo ma io partirei da questo problema fondamentale rispetto a cui dobbiamo misurarci: questo è un particolare stato di guerra in cui l'evento centrale della guerra, e cioè la distruzione delle vite, o avviene alla periferia del nostro mondo e in mondi che noi consideriamo periferici, oppure avviene all'orizzonte del nostro ma in modi virtuali, in modi ipotetici. Talvolta, ahimè, in modo brutalmente realistico come è avvenuto a New York l'11 settembre ma tutto questo viene metabolizzato in un andamento, in un processo di sviluppo del nostro mondo in cui queste cose sono diventate normali.
Se siamo d'accordo sul fatto che si tratta di una egemonia strana, l'egemonia militare americana, allora due parole sulle logiche che presiedono a questo tipo di conflitti, che cosa c'è in gioco? Quale è il punto? Cerco di sintetizzare per organizzare le considerazioni.
Penso che quello che è in gioco siano fondamentalmente due variabili tattiche di una stessa strategia. Mi riferisco in particolare al cambio di politica estera delle due amministrazioni: quella Clinton e quella Bush. L'amministrazione Bush è una amministrazione che, come avete visto, a partire dall'11 settembre, si è impegnata in due conflitti, uno pseudovinto e l'altro pseudoperso, in Afganistan e Iraq, e che al tempo stesso sta combattendo conflitti di cui non si parla, semi invisibili, più o meno a bassa intensità, in altre regioni della terra che vanno dal Corno d'Africa, alla zona di Aden, dalla Colombia, alle Filippine e altre zone. Questa amministrazione quindi è considerata, giustamente, particolarmente militarista. Dal canto suo l'amministrazione Clinton, quella buonista, progressista (lo dico apertamente, non nascondo i miei punti di vista), quella che piace molto ad alcuni uomini politici di centro sinistra, è una amministrazione che certamente non ha mandato soldati a combattere direttamente sul terreno ma che si è impegnata in un bel numero di conflitti anch'essa. A parte il conflitto del Kossovo in cui, secondo me, è stata in realtà trascinata più o meno dagli europei dando poi una certa impronta alla vicenda, in particolare si è impegnata in un gran numero di "conflittini" o considerati tali. Per esempio il famoso intervento in Somalia nel 1993 che si tradusse in uno straordinario disastro per le armi americane a Mogadiscio (mi sto riferendo a Black Hawk Down) e diversi altri interventi. Tra questi vorrei ancora citare il periodo dal 1991 al 1998 in cui fu mantenuto il controllo armato della "No Fly Zone" con bombardamenti quotidiani che pare abbiano prodotto, soltanto nel corso dei bombardamenti 5000 vittime civili tra gli iracheni. Vorrei citare anche l'embargo, di cui oggi nessuno parla più, cioè le sanzioni contro l'Iraq che, secondo gli osservatori dell'Unicef e di alcune agenzie dell'ONU, hanno causato tra 1 milione e 1,5 milioni di morti, vittime indirette per mancanza di medicine, penicillina e , soprattutto, beni di prima necessità.
E' difficile dire che si tratti di due politiche radicalmente diverse anche tenendo conto che l'11 settembre effettivamente ha segnato uno spartiacque fondamentale, anche se forse non un evento epocale. Sta di fatto però che siamo di fronte a due modi diversi di impostare la politica militare. Nel caso di Clinton si potrebbe parlare di una politica di interventismo globale legittimo, che cerca cioè sempre di proteggersi le spalle con l'ONU, le varie agenzie internazionali e quindi agendo, in di fatto di diritto, in "punta di legge" (con molte virgolette).
Nel caso di Bush invece questa politica del coinvolgimento globale, del rispetto formale dell'ONU, e cose di questo tipo viene abbandonata a favore dell'intervento unilaterale e, come sapete tutti, piuttosto sprezzante ed altrettanto internazionale. Ancora una volta siamo di fronte ad un punto di vista abbastanza convenzionale. Per esempio la guerra in Kossovo è stata una iniziativa non benedetta (mi dispiace per D'Alema che non la pensa così su questo punto) dall'ONU, ma dalla NATO. Fu la NATO a combattere. Se voi ci pensate si assiste nel periodo 1991 al 2003 ad un progressivo disinteresse dell'occidente, in particolare degli Stati Uniti, per le istanze internazionali di legittimazione dei conflitti.
1991: tutto il mondo sotto l'egida l'UNO contro l'Iraq. 1993 in Somalia, nel 1995 in Bosnia, intervento sempre sotto l'egida l'ONU. 1999 conflitto in cui l'ONU non appoggia l'intervento. 2001 intervento che viene, a parole, appoggiato dall'ONU ma, di fatto, voluto solo dagli Stati Uniti. 2003, pochi mesi fa, conflitto in Iraq, in cui Stati Uniti e Inghilterra e pochi altri paesi tra cui l'Italia che, indipendentemente dall'ONU e da qualunque altra istanza si considerano in diritto e dovere di fare un intervento militare per conto del mondo.
Per farla breve ritengo che in realtà siamo di fronte a due variabili politicamente diverse ma sostanzialmente unificate da uno stesso tipo di strategia politico/militare che ha un solo presupposto: lo strapotere dell'occidente, ed in particolare degli Stati Uniti, dal punto di vista militare.
La novità introdotta dal 2001 è una novità paradossale, segna infatti l'attuazione esplicita di una strategia diretta, che è quella della guerra asimmetrica, che gli americani concepivano già a partire dagli anni '80. In che senso il 2001, che apparentemente sembra un disastro inatteso, un evento assolutamente imprevedibile, è l'effetto di una strategia?
Perché gli Stati Uniti dal momento stesso in cui hanno incominciato ad individuare nell'Unione Sovietica, poi Russia, un gigante malato (e questo avviene a metà degli anni '80 prima ancora che Gorbaciov varasse le sue riforme radicali), un'apparenza che si stava sgonfiando, hanno immediatamente compreso che i termini stessi del conflitto militare globale sarebbero cambiati.
Non ci sarebbe più stata una guerra bilaterale, una guerra in cui i due competitori si comportano, sia uno più forte o più debole, come due duellanti, ma ci sarebbe stata una sola forza in campo.
Il problema quale è? E qui entriamo nel merito delle cose dell'incontro di oggi. Il problema, molto banalmente, è che la concezione occidentale della guerra (qui sono costretto a semplificare anche se le cose in questo campo sono più interessanti) che, se volete nasce nella battaglia oplitica nel 5° - 6° secolo A.C. che si basa sull'idea dello scontro bilaterale in cui due forze teoricamente pari si scontrano lasciando alla sconfitta sul campo dell'una la decisione e questo costituisce il punto di svolta.
Questo tipo di conflitto bilaterale, in cui due grandi competitori sono pronti a distruggersi, finisce nello stesso momento in cui viene a mancare la definizione astratta, assoluta, dei due competitori.
Come se il mondo avesse un solo gigante armato che si trova circondato. Ma circondato da che cosa? Non si trova più circondato da uno stato, un'alleanza, una parte del mondo che vuole combattere come lui pretende di combattere. Questo è il concetto di guerra asimmetrica che diviene decisivo nel pensiero politico/strategico americano dal 1985 in poi e da cui nasce tutto. Gli Stati Uniti avevano capito perfettamente che, in un mondo di questo tipo, alla presenza di un solo guerriero globale si sarebbero contrapposti piccoli guerrieri diffusi che non avrebbero assolutamente accettato di combattere secondo le regole dell'altro: questo è il concetto di guerra asimmetrica. L'asimmetria comporta due punti di vista. Il primo punto di vista è quello del forte, di chi ha una tale superiorità da potere combattere convenzionalmente qualunque altro avversario. Ma c'è anche un senso diverso, diremmo l'asimmetria dal punto di vista degli altri, di quelli che non rientrano in questo schema, che sono quelli che pur di combattere il gigante ricorrono a mezzi scorretti diversi. Questo è il punto su cui è inutile girare intorno e che è stato prefigurato dagli americani, gli americani si aspettavano un attacco contro il loro territorio, questo dal punto di vista teorico, ma non sempre gli teorici e gli strateghi trovano ascolto nel loro ambiente. Io raccolgo materiale dai siti e da altri luoghi da parecchio tempo su questi argomenti e vi assicuro che ho trovato descrizioni di un possibile intervento, naturalmente non venivano citate le Twin Tower, ma qualcosa del genere, poteva essere la Casa Bianca, il Golden Gate, o altro ma più meno il punto era quello.
Questo è il conflitto come oggi viene ridefinito in quello che io ho chiamato prima "l'attuale e strano stato di guerra". Ora qui (anche io dovrò misurare le parole perché, ripeto, su questo punto c'è la possibilità di grossi fraintendimenti) parlare di questo significa tentare di vedere oggettivamente, senza farsi influenzare troppo dallo spirito del tempo e da quello che noi leggiamo sui media, come evolve un modello di conflitto e quasi sono le conseguenze, quasi mai volute, dell'evolversi di questo modello.
Comincerò citando il più grande militare del nostro tempo, che è inglese, John Keegan, il quale ha detto che mai nella storia, mai, un conflitto è evoluto così come chi l'ha iniziato intendeva che continuasse. Non c'è stata mai una volta in cui un piano militare di guerra ha dato, ha prodotto, un conflitto secondo le previsioni. Questo vale per qualunque tipo di conflitto: dal conflitto del '14 a quello del '39, al conflitto del Vietnam e, io oso dire, anche oggi in particolare nella guerra in Iraq, l'ultima guerra nel 2003. Esiste, aggiungo, una sorta di tradizionalismo tipico di chi inizia una guerra per cui qualunque modello strategico, cioè di conduzione globale di un conflitto, viene condotto in realtà tenendo conto molto di più dei presupposti teorici della propria disciplina tra cui una disciplina discutibile come la strategia militare, che non dell'ambiente in cui ci si trova a operare.
Cerco di spiegarmi, vi prego di avere pazienza ma questo per me è il punto chiave.
Circa nel 210 A.C. o giù di lì (non sono mai stato forte nelle date) come sapete Annibale, dopo essere penetrato attraverso in Italia per le Alpi, inflisse ai romani vicino a Canosa una terribile sconfitta in cui perì circa l'80-90% dell'esercito romano (quindi si dice tra gli 60-80mila uomini) utilizzando una tattica sul campo che è quella dell'avvolgimento. In poche parole in quell'epoca si combatteva fila contro fila, falange contro falange (il modello era ancora quello della falange greca) e tendenzialmente avveniva questo grande "cozzo" e, quando uno dei due cedeva gli altri non stavano a compiere grandi stragi o a inseguire gli avversari per il semplice motivo che la falange si sarebbe scomposta. Questo portava più o meno a una guerra certamente sanguinosissima ma non distruttiva fino alla fine. Annibale, per la prima volta nella storia, almeno stando agli storici militari, fece arretrare il centro della sua falange in modo tale da attirare l'esercito romano che si muoveva in un blocco unico (non c'era ancora stata la riforma in "coorti" che sarebbe avvenuta dopo) riuscendo così con la cavalleria e le ali a circondare l'esercito romano. In poche parole quella che cominciò come una classica battaglia tra opliti finì in una strage indescrivibile. Trovo inimmaginabile la condizione di 70.000 soldati romani addossati l'un l'altro in modo tale che nessuno poteva neanche tirare fuori la spada dal fodero che furono letteralmente fatti a pezzi dai cartaginesi, cioè dagli spagnoli, galli che combattevano con loro, i quali potevano muoversi mentre gli altri erano bloccati come un grande carapace un "granchione" immobile.
Il piano di guerra che più di due millenni dopo viene inventato da Schlieffen per invadere la Francia viene copiato esplicitamente dalla battaglia di Canne
Cioè Schlieffen e questo si è ripetuto nel 1912 quando questo piano fu pubblicato e poi avvenne nel 1939 con l'invasione attraverso le Ardenne, utilizzò, come dice lui, dal punto di vista logico, lo stesso piano per invadere la Francia. Mentre un'ala del suo schieramento faceva finta di attaccare al centro lo schieramento francese all'altezza di ?Moluse? l'altra ala fece il giro del Belgio per cercare di circondare gli eserciti francesi.
Il piano Schlieffen era ricopiato, come proprio è noto da parte degli storici, esattamente sulla battaglia di Canne.
Voi direte: "perché ci racconta queste storie?"
Ebbene, la battaglia con cui il fronte anglo/americano/mondiale ha sconfitto Saddam, mediante l'uso soprattutto di forze corazzate, nella battaglia di Kuwait City era ricopiato su questo piano. Se voi andate a vedere i libri e soprattutto le pubblicazioni del Dipartimento della Difesa che raccontano questi fatti scoprirete come gli Stati Uniti americani, il famoso Generale Schwarzkopf, non ha fatto altro che, in condizioni infinitamente diverse, riprendere lo stesso piano consistente fondamentalmente in un attacco simulato al centro e all'avvolgimento alle ali. Quindi quando dico che c'è un tradizionalismo che si appoggia più sulla cultura militare dei generali che non sulla condizione delle circostanze mi riferisco esattamente a episodi come questi. Per cui il momento decisivo della battaglia viene prefigurato dagli strateghi come se si trattasse di una operazione accademica in cui conta, fondamentalmente, tener conto dei fondamenti e citare le note a piè di pagina. Non sto scherzando, questo è il punto centrale della questione che ci fa capire (poi riuscirò a parlare brevemente anche di media) perché si determinata la situazione di pantano in questo momento in Iraq. Questo non vale naturalmente solo per i riferimenti storici. Nel corso degli anni '80 gli strateghi americani (la cui lettura, vi assicuro è veramente affascinate se uno supera quella che si potrebbe dire "la ripugnanza iniziale" nell'occuparsi di questi argomenti) hanno scoperto che esiste la "teoria della complessità" e la "matematica non lineare" e che quindi non è il caso di applicare nelle valutazioni dell'andamento del conflitto soltanto un sistema funzionale semplice per cui a tal numero di perdite nostre corrisponde un certo numero N, moltiplicatore di perdite altrui, mentre invece è opportuno tener conto del fatto che il combattimento, la battaglia, il momento "clou" di uno scontro, deve tener conto anche delle controreazioni da parte dell'avversario e quindi di una sorta di circolarità che si muove in una sorta di spirale di cui è fondamentale conoscere, prefigurare inizialmente l'andamento. Ecco cosa è la guerra asimmetrica. La guerra asimmetrica è fondamentalmente il tentativo, insisto, non riuscito, di applicare alle condizioni contemporanee un modello di guerra innovativo legato, appunto, all'esistenza di un solo competitore mondiale, cioè il gigante americano.
Gli americani erano perfettamente consapevoli che a uno strapotere di questo tipo si sarebbe reagito con interventi, con "punture di spillo", ecc… e hanno ritenuto di poter vincere anche su questo terreno. Quali sono gli elementi con cui, diciamo, la strategia della guerra simmetrica pensava di conseguire questo obiettivo? Fondamentalmente questi elementi si coagulano in 3-4 definizione chiave. La prima, sicuramente, è quella di psycowar, di guerra psicologica, che è qualcosa di più di guerra psicologica, con cui si intende fondamentalmente la strategia come inglobante qualunque aspetto tra cui, ad esempio il punto di vista dell'avversario, la capacità di indebolirne la potenza militare attraverso, ad esempio, la corruzione degli alti gradi: quello che è successo in Iraq in marzo quando, per capirci, gli americani erano riusciti a mettere dalla loro gli alti gradi della Guardia Repubblicana promettendogli denaro, qualche tipo di beneficio, ecc.
In questo tipo di guerra rientra anche la disinformazione del nemico: il fargli credere cose che possono indurre il nemico in errore. In questo tipo di guerra rientra la disinformazione dell'ambiente in assoluto, quindi la creazione di informazione ad ogni livello, non solo all'interno dell'infosfera, quindi dell'informazione in cui viviamo, ma anche tecnicamente sul campo di battaglia, ad esempio, accecando tutti i sistemi radar e così via. Secondo termine essenziale è quello di Netwar, cioè di guerra in rete. Se si assume che l'avversario può combattere non in modo frontale (non in modo oplitico per capirci) ma in modo diffuso, lo può fare soprattutto attraverso l'esistenza di reti più o meno coperte, più o meno funzionali.
Allora compito di una strategia militare asimmetrica sarà quella non solo di distruggere le reti del nemico ma, in particolare di infiltrare le sue reti con una contro rete. Questo è quello che è successo prima della guerra quando tutti i servizi segreti occidentali, non escluso quello italiano come è stato rivelato da "La Repubblica" e da "Il Manifesto" successivamente, erano presenti fin da settembre 2002 in Iraq.
Un altro elemento essenziale in questo tipo di conflitto è la tecnowar, questo è il principio essenziale della guerra asimmetrica, mettere in opera una strategia in cui, sempre naturalmente la parte di chi progetta la strategia sia preponderante sul piano strettamente tecnologico. La tecnowar consiste nel fatto che se uno ha dei carri armati, degli aerei che risalgono, come avveniva nel caso dell'Iraq agli anni (erano retrocessi anche dopo l'embargo) '60, allora metterò in campo delle armi che lo sovrasteranno per cui sarà impossibile che il nemico possa reagire.
L'asimmetria quindi comporta un nuovo tipo di interazione tra i due eserciti, tra le due forze armate, che non si basa più solo sul "cozzo" frontale, quello tradizionale, quello a cui siamo abituati a pensare quando ragioniamo in termini di guerra, ma su una sorta di sovrapposizione di capacità di una parte di giocare la battaglia dell'altro e di vincerla.
Tutto questo è clamorosamente franato nel caso dell'Iraq per il semplice motivo che gli strateghi americani non hanno tenuto conto dell'elemento che doveva essere considerato essenziale, nel caso della guerra asimmetrica, di tutta questa vicenda: ed è che l'asimmetria dall'altra parte, l'esistenza di reti di avversari che non combattono in modo tradizionale non è solo il frutto di quello che gli americani chiamerebbero la "perversità", cioè l'ostinazione ma è spesso anche il frutto di un ambiente sociale ostile. Il concetto di ambiente sociale ostile, quindi di metacontesto se volete, in cui, all'uopo, si muove la parte avversaria, è completamente ignorata. In poche parole gli americani avevano prefigurato già da anni come invadere l'Iraq (probabilmente i primi progetti risalgono a prima del '91), come distruggere l'esercito iracheno senza troppe perdite da parte "nostra", e senza troppe da parte dell'altro, anche se poi vi dirò che tipo di rapporti si possono stabilire in questo campo. Gli americani, quindi, avevano tenuto conto di tutto ma non avevano tenuto conto semplicemente del fattore, che in questi giorni sta balzando clamorosamente all'occhio, che il teatro in cui si disponevano ad agire non era uno spazio "liscio", non era il deserto kuwaitiano, ma era una società civile, una società organizzata in modo discutibile, governata da un governo sanguinario, ma pur sempre una società civile, una società che nonostante il governo di Saddam era auto organizzata. Aveva Istituzioni, aveva infrastrutture, aveva soprattutto culture (qui uso la parola cultura non nel senso del conflitto di culture o strumenti di questo genere ma nel senso di aree in cui le persone la pensavano diversamente e in cui si organizzavano e avevano punti di vista diversi) che non erano necessariamente quelli dell'invasore.
Non aver tenuto conto di questo fatto ha significato non aver capito assolutamente come perfino in un territorio come quello iracheno che ha montagne solo al nord e non ha troppi boschi, giungle, sia possibile impantanarsi anche se si è in una situazione di deserto.
Ora due parole, dal mio punto di vista, sul nesso tra questo tipo di logica militare e la logica dell'informazione. Ho detto prima che l'infowar, la guerra dell'informazione, non è una parte secondaria in un conflitto. Nello stesso momento in cui gli americani, a partire dalla fine degli anni '80 hanno pensato che si sarebbero trovati in questa situazione l'informazione in senso lato è diventata parte della strategia militare. Non sto sbagliando, non è un lapsus, la questione dell'informazione viene assunta nella sfera militare, non avviene prima, come in precedenza (ad esempio nella guerra del Vietnam) per cui la guerra viene combattuta in un ambiente in cui l'informazione teoricamente può essere sovrastante o circostante ma l'informazione viene "tirata dentro" la sfera militare. L'infosfera viene considerata variabile e assoggettabile ai fini militari.
Mi avvio al cuore delle considerazioni.
La guerra del Vietnam non è stata persa assolutamente, come si ritiene in modo popolare, perché i media si sono ribellati né perché i media hanno fato vedere la guerra. La guerra del Vietnam è stata persa per il semplice motivo, la dico brutalmente, perché ha incominciato a coinvolgere le mamme e cioè è stata persa dal momento i cui è partita la leva di massa.
Voi sapete che gli Stati Uniti, come l'Inghilterra, si basano ancora oggi, tranne alcuni periodi (e cioè la 2° guerra mondiale ed il Vietnam), sull'esercito volontario o, se volete, mercenario, un po' come avverrà in Italia.
Il progressivo impantanarsi in Vietnam portò, nel '76, gli Stati Uniti a fare questa cosa particolare che è una sorta di leva di massa travestita per cui ad esempio i giovani americani, e soprattutto quelli neri, quelli delle minoranze sfavorite, erano costretti a andare in guerra, quindi ad arruolarsi contro la loro volontà, se la loro riuscita scolastica non era buona.
Sto parlando di una società, un paese di cui non condivido per nulla evidentemente la politica ma che certamente non ha una dittatura, per quanto questo può significare. Quindi sto parlando di una società complessa e per certi versi interessante, per certi versi molto diversa da come penso molto spesso il pubblico se lo immagina.
Sto parlando di profonde questioni sociali perché erano i neri, i bianchi poveri del sud, del Texas per esempio, che andavano a combattere.
Fare questo significava esporre la società americana alla brutale verità del fatto che ogni famiglia (soprattutto non famiglie come quelle di Bush e Clinton che, come sapete bene, si sono ben guardati dall'andare in guerra) al pericolo che i loro figli andassero a combattere. Per questo dico che la guerra del Vietnam è stata persa al momento in cui le mamme sono state coinvolte. Le mamme, le famiglie negli Stati Uniti hanno un ruolo fondamentale perché se cominciano a scrivere al loro rappresentante, perché protestano, perchè l'america come sappiamo, da (…) in poi è un paese in cui l'associazionismo, specie su base religiose regge, nonostante tutto, l'intera impalcatura della società.
I media hanno, da parte loro, costituito uno strumento con cui le mamme, le famiglie potevano vedere in diretta quello a cui i loro figli erano assoggettati. Mi sto riferendo in particolare alla "Giornata del Tè", a quando i Viet Cong riuscirono ad entrare nell'ambasciata americana uccidendo i marines di guardia oppure alla battaglia di (…) in cui i Viet Cong riuscirono ad entrare nelle basi.
E' questo un momento importante, da quando la guerra è entrata nelle famiglie attraverso la televisione. Ci voleva la guerra, ci voleva la televisione, ci volevano le famiglie sensibili a questo. Questo è il motivo per cui questa guerra diventa intollerabile per la società americana.
Combattere la guerra dell'informazione vuol dire, per esempio, tranciare di netto un possibile canale di comunicazione tra ciò che avviene veramente in guerra, la televisione e le famiglie, quindi tranciare il rapporto tra il sistema informatico militare e il sistema della vita sociale a livello famigliare.
Questo nel 1991, quando gli americani si aspettavano ben più perdite di quanto abbiano in realtà avuto, tutto il giornalismo mondiale, il sistema informativo mondiale, televisioni, stampa, ecc, è stato, con un colpo di mano verso il cui nessuno si è ben guardato dal protestare, messo sotto gli ordini del Generale Schwarzkopf.
Vi ricorderete come nessun giornalista ha potuto assistere in nessun modo alle operazioni militari fino ad arrivare al paradosso per cui, a battaglia finita questi poveri iracheni che si arrendevano si sono arresi persino alla televisione italiana.
Da allora pensare che in tempo di guerra esiste una informazione indipendente è una vera bubbola.
L'informazione indipendente non esiste. Dire questo non vuol dire immaginare qualcosa come il Grande Fratello di Orwell. Non c'è la Verità americana che sovrasta il mondo e che ci dice quello che sta succedendo. No, le procedure sono un pochino più complicate. Qui cerco di dire, secondo me, alcune parole su questo punto.
Per cominciare naturalmente stiamo parlando di un sistema informativo in cui gli Stati Uniti fanno la parte del leone, gli Stati Uniti e i loro alleati: Australia, Murdoch, Inghilterra, Italia, ecc, che in qualunque momento controllano l'informazione.
Questo sistema non è un sistema statico, è un sistema che affronta gli andamenti delle cose della guerra giorno per giorno e, naturalmente, è un sistema plurale. Fa ridere citare l'Italia ma se noi pensiamo al mondo pensiamo a un sistema plurale ed è vero che tutte le informazioni del mondo vengono canalizzate da non più di 4 agenzie centralizzate, ma è ben vero che i terminali sono così numerosi, così complessi che sarebbe impossibile per queste 4 agenzie "dire" oltre un certo livello, fabbricare oltre un certo livello l'informazione. Fabbricare nel senso della "fabbrication" inglese che vuol dire anche costruzione di menzogne, per capirci.
La verità è che questo è un sistema complesso, un sistema dinamico, un sistema che inevitabilmente ritrova a reagire in certi momenti a certe situazioni ma poi cambia. Ad esempio il sistema negli Stati Uniti (ero lì in quel momento) ha reagito all'11 settembre praticamente mettendo la mano all'elmetto in modo assolutamente unanime. Successivamente ha cominciato a interrogarsi sul perché, proprio "l'imperio" della comunicazione di mercato (la comunicazione è di mercato) ad esigere che il mercato stesso fosse soddisfatto.
Allora nello stesso momento in cui il messaggio dominante (quello del patriottismo, del battiamo il terrorismo, ecc) comincia a scricchiolare perché il terrorismo non viene sconfitto, in quello stesso momento il mercato (che forse è ancora più fondamentale del sistema dell'informazione, che è ancora più importante de sistemo politico/militare americano) comincerà a esigere che si dica la verità, che cioè si individuino delle strategie un pochino più efficaci. E' per questa ragione che a partire da aprile/maggio di quest'anno (2003) l'intero sistema del consenso americano e quindi del consenso mondiale ha cominciato a modificarsi. Ecco perché i giornali americani che ancora nell'inverno del 2001/2002 (parlo dei grandi giornali Los Angeles Time, New York Time, Washington Post, ecc.) hanno iniziato lentamente a non credere più a quello che la Casa Bianca diceva.
Qui pongo un problema: ci hanno creduto prima. L'aspetto strutturale infatti non è tanto la revisione del loro punto di vista ma è impressionante che nessuno si sia posto il problema del perché avrebbero dovuto credere alla versione globale :"noi nella giusta lotta contro il terrorismo" finchè la lotta andava bene. Successivamente hanno incominciato chiederselo…
Quindi c'è un limite. Io non credo affatto, e di questa cosa discuto spesso con il mio amico Giulietto Chiesa che su questo ha opinioni un pochino più radicali. Giulietto pensa che viviamo in un mondo in cui fino all'ultimo messaggio di posta elettronica viene sorvegliato.
Io penso che sia possibile sul piano teorico ma credo anche che il carattere composito, inevitabilmente pluralistico del mondo dell'informazione faccia sì che sia impossibile mantenere la Verità, rigidamente nell'arco di un certo lasso di tempo. E questo è quello che sta succedendo, se ci pensate, in Iraq. Naturalmente questo succede con piccole spot, piccole "macchie", piccole interruzioni.
Faccio un esempio molto banale. Vi sarete accorti come, dopo Nassirya e dopo l'ultimo elicottero americano abbattuto, praticamente non ci siano più informazioni sui giornali sull'andamento del conflitto in Iraq. Come se gli americani non morissero più. E' assolutamente falso. Per verificare questo basta girare tra i siti dei giornali e delle agenzie americane e si capirebbe che dai 2 ai 3 marines ogni giorno muoiono. Naturalmente basta spostare le perdite dall'asse "sconfitta" all'asse "incidenti" di vario tipo (ogni esercito in campo ha sempre delle perdite di questo tipo) per deviare l'attenzione da quello che è. Infatti ormai è una sconfitta militare devastante. E' inutile che noi evitiamo le questioni: quella americana in questo momento è una sconfitta strategica assoluta, che non ha possibilità di correzioni né di miglioramento. Si tratterà solo di capire come e quando questi e i loro alleati, tra cui il nostro piccolo paese, riusciranno a togliersi da quel pantano, questo è il fatto.
Se voi pensate al contesto che circonda questa vicenda e cioè alla Siria, l'Iran, al pasticcio incredibile che è stato creato è viene una sconfitta. Eppure la parola sconfitta non può essere citata, non può essere detta e non possono essere più dichiarate le perdite in campo.
Qui ancora alcune piccolissime considerazioni su questo punto. Che cosa determina il senso culturale pubblico di una sconfitta?
Se tornate brevemente, mi pare, a quel 8-9 ottobre del 1993 quando gli americani riuscirono a farsi abbattere 3-4 elicotteri a Mogadiscio. Quel giorni si trattò di una semplice operazione che viene raccontata, non tanto nel film "Black Hawk Down" fatto secondo me in modo molto falsificante, ma nel libro che è piuttosto interessante.
Quel giorno gli americani mobilitarono un centinaio di forze speciali: Rangers, Delta Force, agenti della CIA, quindi persone in larga parte scoperte, non militari ordinari, per catturare due luogotenenti di Aidid.
Come sapete la cosagli andò male subito poiché gli americani una volta di più (qui c'è proprio un deficit strutturale di capacità di comprendere) non avevano calcolato che andavano a fare questa operazione nella zona del mercato di Mogadiscio, all'interno di un quartiere completamente controllato da Aidid. Il risultato fu che appena gli americani si calarono sull'albergo in cui c'erano i loro bersagli e si impadronirono di questi l'intero quartiere, anzi l'intera città di Mogadiscio con l'esclusione delle ambasciate e dei campi militari dell'ONU si è ribellata contro di loro.
100 Rangers super armati, con elicotteri e tutte quello che immagino potevano avere, si sono ritrovati circondati da 200-300.000 persone in gran parte, in vari quartieri della città, entrati in conflitto con loro. Il risultato di questa battaglia è che 20 americani morirono sul momento, un'altra decina in seguito negli ospedali militari e tutti gli altri furono feriti che dal punto di vista della squallida contabilità militare è un vero rovescio.
Pochi hanno detto, naturalmente le cifre si conoscono, quali furono le perdite degli avversari. Le perdite degli avversari si calcolano tra le 500 e le 1.000. Lo stesso è avvenuto al Check Point "Pasta". Qualche tempo dopo gli italiani si vanno a incartare in una operazione analoga fatta ancora in modo più dilettantesco: il risultato è che 3 italiani sono morti e diversi sono feriti, le perdite tra dei somali si stimano in 3-400.
Viene fuori cioè che questa sconfitta, che fu una sconfitta perché le immagini dei due elicotteristi americani trascinati per le strade convinsero Clinton a togliere il contingente dalla Somalia, si traducono quasi sempre in un bagno di sangue per l'ambiente sociale, per l'ambiente complessivo in cui queste avvengono. Questa è una caratteristica normale di queste nuove guerre. E' brutto usare questi argomenti ma tenete conto che nel conflitto in Iraq che ha già provocato più di 500 morti tra gli alleati (quindi americani, inglesi e italiani) le perdite degli altri non possono essere state inferiori del rapporti 1 a 100. Quindi siamo di fronte almeno (stante la situazione delle armi, il tasso di presenza demografica, di abitazioni, ecc.) probabilmente ad un numero di caduti globali, civili e militari irachene che non può essere inferiore ai 50.000.
Siamo di fronte a forme di stragi di massa che vengono assolutamente metabolizzate dall'altra parte come le famose "perdite collaterali".
Nel '93 comunque si è trattato di una sconfitta mediatica, non di una sconfitta militare, infatti i Generali se ne "sbattono" assolutamente di queste tragedie.
La differenza è che nel '93, proprio perché l'america aveva appena vinto la guerra nel Golfo, ci fu una sorta di "strappo mediatico". Gli americani si consideravano in pace per cui la perdita di questi Ranger a Mogadiscio li convinse che si era di fronte a una situazione eccezionale.
(…)
La difficile e complicata manipolazione dell'informazione rende accettabile delle perdite non solo americane ma soprattutto la morte di decine di migliaia di persone. E' questo il "resto" negativo di queste sconfitte.
(mancano un paio di frasi dal testo registrato in cui si affrontava il controllo dell'informazione come strumento all'interno di una guerra. n.d.r.)
Mi rendo conto che queste argomentazioni possono suscitare qualche fastidio. A me è successo parecchie volte (lavoro da parecchio tempo su queste cose come ricercatore) che questo tipo di argomentazioni siano ritenute ciniche ma vi assicuro che non lo sono. D'altra parte è anche vero che nessun tipo di adesione morale o politica al patriottismo ci può impedire di affrontare una realtà che è un pochino complicata e al tempo stesso piuttosto dura. In questo senso penso che bisogna si debba essere al contemporaneamente estremamente sensibili alla forza dei movimenti di massa che nel protestare contro la guerra ma si debba anche essere molto realisti sulla loro capacità di incidere veramente nel processo. C'è stato un movimento straordinario quantitativo, misurato attraverso alcuni sondaggi, per cui possiamo dire tranquillamente che per la maggioranza degli abitanti di questo mondo, informati (molte zone di questo non sanno nulla) sicuramente il conflitto in Iraq è stato vissuto come una occupazione indebita, illegale e foriera di disastri futuri. Questo non ha minimamente impedito che, proprio in virtù del loro controllo di mercato e saltuario dell'informazione, i governi dei paesi belligeranti e gran parte dei paesi alleati abbiano combattuto una guerra infischiandosene completamente della maggioranza della loro popolazione. Questo, badate bene, non vale solo per Inghilterra, America, Spagna, Italia, vale anche per gli altri paesi dell'occidente i quali hanno pensato in alcuni momenti di cavalcare il pacifismo ma per motivi che il penso che con la pace non avevano del tutto a spartire, come penso sia successo in Francia.
Io non sono di quelli che dicono che a partire da un certo punto in poi l'interesse delle Istituzioni diventa brutalmente, assolutamente politico e smette di essere, se lo è, di ricerca o scientifico. Viviamo in una situazione abbastanza particolare in cui possiamo naturalmente mobilitare o metterci dentro la mobilitazione contro la guerra ma dobbiamo sapere perfettamente come l'andamento del nostro mondo o il tipo di potere del nostro mondo, che non ha precedenti nella storia, può benissimo infischiarsene del nostro pacifismo.
Allora, da questo punto di vista, io considero quasi peggio dell'adesione del governo Berlusconi con la connivenza di circa metà del centro sinistra, che non l'incredibile gazzarra patriottica che è successa a partire dalle morti di Nassirya. Questo per me è il vero centro del vero pericolo (anche perché non sono così ingenuo da non collegarlo alle fortune politiche di alcuni leader di destra alternativi a quello esistente). Trovo impressionante che nell'opposizione non una voce si sia levata a dire quale osceno spettacolo tricolore sia stato giocato in questi giorni. C'è da vergognarsi, lo dico anche se questo, come dico sempre, può essere considerato un atteggiamento "sgradevole", a partire dal nostro Presidente della Repubblica, cioè dal garante della Costituzione.
E'inammissibile che si possa mettere in scena quello che si è messo in scena a partire dal telegiornale che una sera sento dichiarare per voce della telecronista: "Ecco i nostri giovani eroi, belli e con i capelli corti!". Francamente provo schifo di fronte a queste a cose del genere. Non parliamo comunque delle cose comiche e tipicamente italiane: mancavano infatti le sedie per le famiglie dei caduti… ma questi episodi sono semplicemente tipicamente italiani.
Bisogna capire che il vero problema del controllo dell'informazione in questo momento non avviene tanto nelle situazioni di guerra che con un po' di buona volontà, perché proprio il sistema è pluralistico possiamo trovare scartabellando su internet o leggendo nei giornali stranieri, ma avviene proprio dalla messa in gioco di questi mondi, cioè dalla creazione di queste mitologie patriottiche che sono tanto più, mi permetto di dire, disgustose quanto più cercano di tacitare domande banali: cioè che l'Italia ha mandato alcuni migliaia di persone oltretutto, e mi scuso dell'argomentazione ma dobbiamo dire anche questo, non particolarmente allenate, sbagliando clamorosamente le valutazioni politiche. Infatti se ci fosse stata una valutazione "di teatro" non avrebbero messo un comando in una palazzina tra un fiume e un prato senza sbarramento attorno.
Inoltre persone mandate in una guerra che se avessero intervistato, non dico i … televisivi come Magdi Allam o l'altro suo omonimo, ma magari qualche iracheno gli avrebbero detto che era vissuta come una occupazione militare di stranieri quale che è, e soprattutto sulla scia di un esercito vincitore il quale aveva finito appena di far fuori tra i 40 e i 50000 iracheni.
Questo, mi spiace dirlo, bisognerà iniziare a metterlo sul piatto perché questo è il motivo per cui noi ci troviamo, non troppo, ma abbastanza impantanati in una situazione di questo genere. Finisco dicendo che è molto probabile che gli americani non sono in grado, né i loro alleati, di uscire da questo conflitto salvando la faccia (a questo punto è meglio che lo facciano salvando la faccia piuttosto che creare disastri successivi). E' molto probabile che a noi, al nostro paese, anche se questo riguarda poche decine migliaia di volontari sia richiesto di intervenire, perché sia ben chiaro che se gli americani non lo faranno ma ritirano sopratutto, mantenendo le forze combattenti, le forze complementari, la logistica, la polizia militare ecc, questo tipo di intervento militare non può che essere sostituito da quello di altri paesi e noi probabilmente saremo chiamati a farlo di più. Quindi vuol dire entrare ancora di più in una situazione militare che non ci riguarda, rispetto a cui non ci sono interessi (uso questi argomenti volgari ma è su quelli che penso ci si possa capire di più, effettivamente), e soprattutto che ci espone, esattamente oggi come ieri e probabilmente di più domani, a delle controreazioni che, parliamoci chiaro, io non posso giudicare ma che posso considerare illegittime rispetto a un indirizzo di guerra tradizionale ma che mi sembrano del tutto comprensibile. E se qualcuno pensa che le reti di Al Qaida siano costituite solo da pochi miliardari pazzi e fanatici votati alla guerra forse non ha capito che dietro questi hanno l'appoggio di popolazioni derelitte e diseredate molto numerose in quasi tutto il mondo arabo. Questo è il panorama in cui si muove tutto questo, allora penso che la battaglia sull'informazione è una battaglia strana perché anche lì non c'è un vero nemico. Molto spesso i nemici, scusate, si annidano tra di noi, io non posso non leggere su "La Repubblica" l'intervento in cui Adriano Sofri dice che non ci dobbiamo ritirare, contribuendo anche lui a questa situazione, non perché il suo giudizio non sia legittimo ma perché è l'argomento che è sbagliato. Il problema non è se ci dobbiamo ritirare o no. Allora la "battaglia" (ahimè ormai il linguaggio militare è dappertutto) dell'informazione è un compito che copre moltissimi livelli, per cui va benissimo, sono assolutamente d'accordo sul fatto che è vergognoso che "RAI OT" sia stata proibita ma è altrettanto vergognoso che non ci siano critiche nei confronti della militarizzazione dell'informazione e della nazionalizzazione dell'informazione che sta avvenendo, che è avvenuta per alcuni giorni in modo per me ripugnante in questo paese. Io direi che da questo si potrebbe ripartire a discutere per vedere di riportare la questione nei compiti che non solo, dal mio punto di vista, del nemico, dell'avversario politico (ripeto, il linguaggio militare si infila dappertutto) ma che è anche il nostro.


Articolo pubblicato sulla rivista "LG argomenti"

Media e Identità
Enrico Testino

Ogni medium crea un suo tipo
non solo di pubblico
ma anche di configurazione mentale.

2000 - Derrick De Kerchove - intervista


Media e pensiero: nuove qualità

Più la tecnologia dei media si evolve più la struttura del loro linguaggio si avvicina a quella del pensiero.

Dalle immagini ferme, lente nella loro creazione, dalle parole senza immagini e suono, dal solo suono si è arrivati oggi a media che hanno compresenza di immagini, suoni, parole uniti da una velocità di esecuzione e trasmissione prima inimmaginabile. Si è arrivati alla possibilità di rappresentare linguaggi visivi con velocità mai raggiunte, di potere pensare e creare collettivamente immagini (pensate a due grafici pubblicitari che realizzano insieme una immagine con un pc), e di potere diffondere messaggi ed idee istantaneamente a livello planetario.

Con la quasi immediata rappresentabilità del pensiero tramite linguaggio visivo, uditivo e alfabetico si è giunti vicino ad una potenziale sintonia tra rappresentazione interna del mondo (il mondo che ognuno di noi si raffigura e che è riferimento e mappa del nostro agire e progettarsi) e rappresentabilità esterna e collettiva di questa tale da rendere la comunicazione mass mediatica incredibilmente potente, evoluta e capace di raggiungere l’intimità degli individui (se non addirittura esternalizzare le personali rappresentazioni del mondo)1.

Una comunicazione così nuova tanto da porre in atto una serie di neo-questioni che investono tutti gli aspetti sociali, culturali e mentali dell’agire umano e, ovviamente, della formazione dell’identità. Possiamo citare come alcune tra le questioni che ci riguardano oggi in maniera urgente i nuovi linguaggi (i bambini/e sempre di più privilegiano un linguaggio/pensiero visivo a uno alfabetico con conseguenti adattamenti dell’attenzione, della formulazione del pensiero, della capacità espressiva),le nuove didattiche (le scuole sempre di più si stanno attrezzando per usare tecnologie di comunicazione nelle ore di lezione; internet: banca dati universale dove raggiungere la mera informazione non è più la capacità da privilegiare ma è, invece, l’abilità di orientarsi in essa), le nuove culture (es. progressivo indebolimento delle culture territoriali, famigliari, di comunità a favore di culture mediatiche condivise, a-territoriali, a-temporali, a-storiche).

Si potrebbe pensare quindi che sia “semplicemente” d’obbligo, per chi si occupa di infanzia, di cultura e di trasmissione di sapere all’infanzia (la funzione, ad esempio, della biblioteca De Amicis) di costruire competenze e iter didattici che possano fornire nuove consapevolezze/capacità di gestire i nuovi linguaggi mediatici, di favorirne la comprensione, di facilitarne l’uso.

Ben venga questo percorso di ricerca e sviluppo ma pensiamo che la sola abilità nel gestire la tecnologia, nel riconoscere e destrutturare i linguaggi, nella postura critica verso i messaggi non basti più a formare individui autonomi e critici.




“Nell’era elettrica, indossiamo
l’umanità come pelle.”
1964 - Marshall McLuhan – “Gli strumenti del comunicare”

Media e pensiero:nuove quantità

I media oggi hanno dalla loro la forza della quantità. Una forza pervasiva, una forza d’urto (citiamo uno studio del 1997: in Francia un bambino all’età 12 anni, è stato sottoposto a circa 100.000 spot” televisivi 2) contesa da tutti i gruppi capaci di gestire mass media a tutti i livelli per la conquista in profondità dell’identità delle persone per fidelizzarle a ideologie, prodotti, comunità.3

La rappresentazione del mondo delle persone è divenuta quindi un terreno dell’odierna battaglia per l’accaparramento del mondo e i mass media sono alcune tra le armi di conquista più efficaci.

I mass media, intesi come quei mezzi capaci di trasmettere lo stesso messaggio, contemporaneamente, a milioni di persone, sono oggi agenzie di stampa, giornali, televisioni di vario tipo, radio, internet, cartellonistica pubblicitaria, cinema, cellulari, che trovano la nuova frontiera tecnologica nella rete elettrica/neurale mondiale capace di sommare tutti i mediae di fornire una potenzialità di connessione senza nessuna pausa.

Non è raro che ognuno di noi venga raggiunto ogni giorno da più di questi mezzi con lo stesso messaggio.

Che lo vogliamo o no, che lo ammettiamo o no la nostra mappa del mondo e la personale bussola che ci orienta in esso: la nostra identità, ne è influenzata massicciamente.

Siamo influenzati nella nostra cultura, scelte lavorative, attitudini sociali, nella personale agenda delle priorità politiche, nella nostra estetica e, di conseguenza, nei nostri consumi e nelle nostre adesioni a diverse ideologie.Poco importa, soprattutto in bambini/e, ragazzi/e adolescenti, che la consapevolezza sulla struttura del linguaggio dei media sia alta. La forza d’urto dei messaggi risulta comunque sensibile.

Non basta sapere che la pubblicità di quella data bevanda si basa su certi meccanismi di comunicazione… se tutti la bevono, se è presente ovunque, se è ricercata da tutti sarà difficile non sceglierla.Sarà difficile persino che voi lettori non la immaginiate adesso anche se non è citata in queste righe!

Se la “massa desiderante” (milioni di persone che desiderano la stessa cosa) viene creata allora il possesso dell’idea/prodotto proposta diventa un urgente punto d’arrivo sociale e personale.

Di fronte a questo cambiamento epocale (che sta avvenendo tramite la tecnologia in diverse scienze e che sta promettendo di cambiare la sostanza stessa dell’essere umano con la manipolazione genetica e cibernetica) ipotetici corsi di “educazione ai media” per bambine/i, ragazze/i non possono limitarsi a ambiti linguistici o psicologici ma devono porsi il problema di descrivere/mostrare tutti i passaggi economici, culturali, sociologici tramite i quali un messaggio diventa potente.

Precisiamo che la chiave interpretativa scelta non è quella che vede la manipolazione di tutti i mass media principali da parte di qualche gruppo di interesse specifico ma piuttosto una visione antropologica in cui la nuova tecnologia cambia a fondo le strutture del comportamento umano individuale e collettivo, mentale e politico.





“So che adesso le cose sembrano molto caotiche, capo,
ma io credo ancora nella legge.
Devo soltanto scoprire dov’è l’ordine.”
1999 – Bruce Sterling – “Caos U.S.A.”

Ciclo di conferenze MEDIA E IDENTITA’

Da queste considerazioni sulla complessità del fenomeno mediatico oggi, dalla difficoltà ad affrontarlo in modo utile per chi si occupa di infanzia, forse dalla nostra inadeguatezza nel trovare una risposta semplice ed efficace e, infine, dalle esperienze su laboratori di educazione ai media nelle scuole “dell’obbligo” sono nati i cicli di conferenze Media e Identità giunti quest’anno alla 2° edizione.

Il progetto è nato dall’esigenza di affrontare i media da più punti di vista, di raccogliere diverse esperienze in un luogo di confronto e, speriamo, di produzione di nuovi punti di vista e soluzioni.

La finalità del ciclo è di creare quindi uno spazio di pensiero, non innovativo ma, speriamo, caratterizzato, uno spazio garantito dalla affidabilità delle Istituzioni aderenti (prime fra tutti la Biblioteca De Amicis che ha appoggiato l’iniziativa da subito e la Biblioteca Berio,l’Assessorato ai Servizi Educativi ed Istituzioni Scolastiche e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Genova e l’Assessorato all’Istruzione e alle Politiche Scolastiche della Provincia, l’Università degli Studi di Genova – Facoltà di Scienza della Formazione) che possa porre in pubblico una serie di riflessioni sui media. Riflessioni che possano dare spunti da diversi punti di vista tramite il parere di esperti di diversi ambiti e discipline.

Così, oltre a due “addetti ai lavori”, Pino Boero, Preside della Facoltà di Scienze della Formazione di Genova e Giorgio Bini, che ha confermato la sua capacità di svelare in modo brillante tematiche centrali ed affascinanti, sono stati invitati giornalisti, psicologi, pubblicitari, accademici, critici d’arte, sociologi che hanno portato le loro personali suggestioni e suggerimenti su “come i media influenzano la formazione dell’identità”.

Restando sulla formazione dell’identità tanti ci sembrano i temi su cui bisogna ampliare lo spazio di discussione e progettazione. Non è possibile, ad esempio, transitare senza discussione sulla, purtroppo prevista sempre maggiore , sponsorizzazione della scuola italiana in atto (esistono in quasi ogni classe genovese delle scuole elementari e medie inferiori pubblicità di noti marchi locali con i quali i bambini convivono per 8 anni tutti i giorni) e futura 4.

La nostra intenzione è di coinvolgere in uno spazio comune diverse competenze e soprattutto di contribuire a fare nascere una attenzione sui meccanismi mediatici di formazione dell’identità che, oltre ad accogliere le considerazioni e i contributi di pedagogisti e psicologi, spinga verso la strutturazione di un pensiero (e conseguenti iniziative accademiche, scientifiche, culturali… legislative) che si rivolga verso gli aspetti sociali, culturali, economici, politici.

Nelle conferenza svolte ogni relatore ha parlato di “come i media influenzano la formazione dell’identità” dal proprio punto di vista e la prima sorpresa è che nessuno si è trovato fuori luogo ma tutti i saperi convenuti avevano molte cose da dire. Tutte incredibilmente pertinenti.

Un tema che è stato toccato da tutti è stato quello del consumo: quanto oggi nella cultura proposta dai mass media sia importante e centrale la presenza dell’aspetto economico e dell’educazione eccessiva al consumo. Altro tema centrale è stato il cambiamento di linguaggio in atto nei giovani così come i cambiamenti culturali dovuti alla nuova situazione mediatica.

Una iniziativa simile, che unisce Assessorati alla Cultura e alla Scuola, associazioni che si occupano di Commercio Equo e Solidale, Associazioni di Pedagogisti, Università della Formazione, Enti che si occupano di tempo libero ed infanzia qualche decina di anni fa sarebbe stata vista come improbabile, oggi è vista come inevitabile. La misura dell’interesse della comunità rispetto a questi temi è data dal fatto che anche le associazioni partecipanti hanno contribuito con loro risorse e lavoro non retribuito alla realizzazione dei cicli di Media e Identità.

L’impressione è che ci siano ancora molti ambiti in cui debba nascere una gestione dei nuovi mediadella loro interazione con la collettività ed il singolo. Oltre agli ambiti didattici, formativi, linguistici, ecc, anche ambiti che affrontino la gestione dello spazio pubblico e la presenza di pubblicità (nelle scuole, città, vie, piazze), la legislazione rispetto ai media di informazione, l’innovazione dei luoghi/biblioteche di trasmissione e gestione del sapere, e altri ancora che sarebbe qui faticoso anche solo enumerare.

Per non disperdere gli sforzi delle iniziative organizzate abbiamo in parte (quelli possibili per ragioni tecniche) raccolto gli “sbobinamenti” delle conferenze effettuate nel sito www.mediaeidentita.it dove troverete anche la lista dei relatori, delle associazioni e delle istituzioni intervenute ai quali mandiamo un sentito ringraziamento per la volontarietà dei loro sforzi.

I relatori intervenuti fino ad oggi alle Biblioteche De Amicis e Berio sono stati:

- 1° ciclo di conferenze (2003): Giorgio Bini, Gianfranco Bruno, Gulietto Chiesa, Alessandro Dal Lago. 2° ciclo di conferenze (2005): Pino Boero, Pier Pietro Brunelli, Gianfranco Marcucci, Fausto Pellegrini, Michele Sorice, Lanfranco Vaccari.

 

1 Come si esprime Derrick De Kerckhove “La televisione, per esempio, è un immaginario collettivo proiettato all’esterno dei corpi della gente,tale da aggregarsi in un processo relativamente coerente e convergente”. Derrick De Kerckhove Brainframe, mente, tecnologia, mercato. Bologna , Baskerville 1993. Cit. p. 23.

 

2 citazione di Ignavia Ramonet (1997) tratta da Vanni CodeluppiIl potere del Consumo. Torino, Bollati Boringhieri 2003. Cit. p. 19.

3“La marca ha valore quando introietta e trasmette forti valori. Nel suo lungo divenire storico – da semplice marcatore di proprietà/identificazione a motore semiotico ed identità – la marca è approdata adesso al variegato mondo dei valori e dell’etica. Valori nell’interpretazione sociologica corrente, come aggregati di senso – cognitivi e affettivi – coerenti, duraturi, moralmente vincolanti, capaci di guidare le scelte individuali per un periodo di tempo sufficientemente prolungato. (…)

Che la marca abbia valore – anzi come si legge sempre più speso nei testi di management, che “rappresenti l’asset più importante di cui l’impresa dispone – i sono ormai troppe evidenze per doverlo ancora documentare. (…) Al limite la marca come un re Mida dei nostri giorni che trasforma in oro tutto ciò che tocca.”

Giampaolo Fabris, Laura Minestroni, Valori e valore della marca. Come costruire e gestire una marca di successo, Milano, FrancoAngeli2004. Cit. p. 13.

4“All’inizio del decennio queste cosiddette emittenti televisive per e scuole hanno presentato una proposta a consigli scolastici nordamericani. Hanno chiesto loro di aprire le aule a due minuti al giorno di pubblicità televisiva, inserita all’interno di programmi su temi d’attualità per adolescenti della durata di 12 minuti. (…) Non solo gli studenti sono obbligati ad assisterealla trasmissione ma gli insegnanti non possono regolare il volume (…). In cambio le scuole (…) possono utilizzare le tanto agognate apparecchiature televisive per altre lezioni e, in alcuni casi, ricevere dei computer gratis. (…) Oggi Channel One (una delle emittenti in oggetto . n.d.r.) è presente in 12000 scuole e raggiunge un numero di stuidenti calcolati intorno agli 8 milioni”

Naomi Klein, No Logo, Milano, Baldini & Castoldi 2001. cit. p. 122